Riccardo Arena
Palermo
La figlia arriva dopo la madre e la nonna: «È la macchina di mio padre, quella, ma dov’è mio padre?», chiede con la voce rotta di chi ufficialmente non sa ma ha capito tutto. Epifanio Alsazia era il proprietario di un’Alfa Romeo Stelvio, aveva 71 anni ed era il più anziano dei cinque operai che ieri hanno perso la vita tutti insieme, in una strage assurda, tremenda, a Casteldaccia, pochi chilometri da Palermo. Un sesto lavoratore, entrato pure lui nella vasca di raccolta dei reflui fognari, trasformatasi in una trappola mortale a causa di un gas venefico come l’idrogeno solforato, sulla strada statale 113, a pochi metri da una nota cantina, la Duca di Salaparuta, è in condizioni disperate al Policlinico di Palermo. Altri tre operai sono stati ricoverati e dimessi: non hanno provato, vedendo gli altri sparire uno dopo l’altro, a entrare nel pozzo assassino. Uno di loro, Giovanni D’Aleo, 44 anni, torna sul luogo della tragedia: è sotto choc, si aggira come un fantasma con indosso il gilet giallo dell’Amap, l’azienda comunale di Palermo che aveva appaltato i lavori. «Sono un miracolato», ripete, «sono un miracolato».
È un eccidio che per uno strano intreccio del destino è avvenuto a poca distanza da dove, nel novembre 2018, una terribile alluvione uccise nove persone, tre dei quali bambini, e da dove, a febbraio scorso nella vicina Altavilla Milicia, erano stati uccisi durante un folle esorcismo madre e due figli. Stavolta a uccidere è stato il lavoro e, se verrà confermata la dinamica ricostruita da chi indaga, la totale assenza di precauzioni nello svolgimento di un compito delicatissimo, lo spurgo di un pozzo della fognatura, al cui interno si sprigionano gas velenosi e micidiali, che non lasciano scampo nel giro di pochissimi minuti. A perdere la vita assieme ad Alsazia, che era contitolare della ditta Quadrifoglio Group di Partinico, l’azienda appaltatrice dell’Amap, un operaio interinale dell’Azienda acquedotto di Palermo, l’Amap appunto, Giuseppe La Barbera, palermitano di 28 anni, il più giovane, padre di due figli piccoli. Gli altri tre erano tutti della Quadrifoglio: Ignazio Giordano, 59 anni di Partinico, Giuseppe Miraglia, 47 anni di San Cipirello, e Roberto Raneri, 51 anni, di Alcamo. Il ricoverato in condizioni disperate è Domenico Viola, 62 anni, gli altri sopravvissuti, oltre a D’Aleo, sono Paolo Sciortino, 35 anni, e Giuseppe Scavuzzo, di 39.
L’ultimo estraneo ai lavori ad avere visto vive le vittime e ad aver parlato con loro, attorno alle 11 di ieri mattina, è stato Fabrizio Mineo, 61 anni, imprenditore e titolare del Palm Beach & Resort, hotel sul mare di Casteldaccia: «Lavoravano qui da alcuni giorni – racconta, visibilmente scosso –. Abbiamo parlato, mi hanno spiegato che avrebbero dovuto utilizzare uno strano aggeggio che spara acqua ad altissima pressione. Erano tranquilli, ma non ricordo che avessero alcun strumento particolare di protezione, come tute o maschere». E in effetti la mancanza di accorgimenti e strumenti salvavita viene ribadita dal comandante provinciale dei vigili del fuoco di Palermo, Girolamo Bentivoglio Fiandra: «Se fossero state prese tutte le precauzioni del caso tutto questo non sarebbe successo», dice senza mezzi termini. Le cloache assassine erano infatti sature di quel gas capace di stordire e uccidere in poche decine di secondi, l’idrogeno solforato. Gli operai sono entrati, in un ordine ancora da stabilire, senza alcuna mascherina protettiva, senza tute o altri supporti di prevenzione. Probabile, ma finora è un’ipotesi, che altre volte fosse andata bene e che invece ieri la concentrazione fosse stata molto più alta del solito. I vigili del fuoco, armati di tutti gli strumenti protettivi, hanno poi misurato la sostanza venefica e l’idrogeno solforato aveva una concentrazione di 100 ppm, acronimo di parti per milioni, quando il limite massimo sopportabile da un essere vivente è di 10.
Dalle 8 del mattino la squadra di operai, in servizio lì dal 29 aprile, aveva iniziato la pulizia dei diversi pozzetti: i lavori si erano resi necessari a causa dei cattivi odori che si erano sprigionati in quell’area lungo la statale 113. Alle 11 l’incontro con il titolare dell’albergo, poi, intorno a mezzogiorno, i lavoratori si sono spostati nel pozzo che introduce alla vasca di raccolta attigua alla cantina: una struttura profonda due metri e dieci per tre metri di larghezza. Sotto, le acque delle fogne. Non appena il primo operaio è entrato è stato investito dal gas, ha perso i sensi ed è finito di sotto. I compagni hanno cercato di tirarlo su ma sono stati a loro volta investiti dall’idrogeno solforato, in una tragica catena che li ha travolti uno dopo l’altro. I tre sopravvissuti a quel punto hanno desistito, ma sono stati pure loro investiti dal gas. «All’improvviso ho sentito i miei colleghi che gridavano – racconta D’Aleo all’AdnKronos – e ho dato subito dato l’allarme. Mi sento un miracolato. Sono sotto choc. Non voglio dire altro».
Le tre squadre dei vigili del fuoco sono arrivate nel giro di quindici minuti da quando, alle 13.48, è arrivata la richiesta di intervento. Sul posto sommozzatori e anche le squadre che si occupano di rischio biologico e chimico. Ma non c’è stato niente da fare: «Gli operai – dice ancora il comandante dei vigili del fuoco – erano persone abituate a svolgere questo tipo di lavori. Quindi sapevano che cosa fare e come equipaggiarsi in circostanze simili. Certamente non avevano le maschere quando noi li abbiamo trovati. Tocca al responsabile del servizio di protezione stabilire quale precauzione andava presa. Ma per quello che abbiamo trovato lì si poteva entrare solamente con le bombole di ossigeno. Impensabile avventurarsi senza, in quella vasca non c’era ossigeno, ma solo idrogeno solforoso». È anche per questo che ieri, nella sede della Quadrifoglio è andata la polizia, spedita lì dalla Procura di Termini Imerese, che ha aperto la terza inchiesta sulla terza strage avvenuta nel suo territorio di competenza, nel giro di cinque anni.