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17 Giugno 2022La storia In due tele del Rustici di proprietà degli Uffizi e presto al Santa Maria della Scala la caccia ai tori: rito liberatorio a cui partecipavano le Contrade per mostrare di domare le insidie del nemico
di Roberto Barzanti
Il Campo era trasformato in un’arena abbellita di verdi frasche e delimitata da una siepe di rose: uno spazio a metà tra un prato di maggio e un incantevole giardino. Diffondeva l’atmosfera agreste che attorniava le ville sparse in campagna. Il leggero declivio a forma di conchiglia era diventato un bizzarro teatro, pronto per uno spettacolo cruento e giocoso: la Caccia ai tori e a numerose bestiole che sarebbero spuntate all’improvviso.
Non si conosce l’anno in cui per la prima volta a Siena fu organizzato, in occasione delle festività di mezz’agosto dedicate a Maria Assunta, uno spettacolo del genere. Una Caccia sembra si sia svolta nel 1466. Una è documentata nel 1468. Il Concistoro aveva all’uopo nominato un dominus caccie , un autorevole signore, come si faceva per il Palio, che si sfrenava lungo le vie della città. Ma ai senesi quella corsa che si riusciva a intravedere per un tratto non bastava. E così si aggiunse, di tanto in tanto, verso la fine del Quattrocento, un altro svago, di matrice spagnolesca. Le due tele di Vincenzo Rustici (1557-1632) di proprietà degli Uffizi raffiguranti la Caccia del 15 agosto 1546, assegnate in deposito alla collezione del Monte dei Paschi, saranno trasferite al Santa Maria dalla Scala e rese visibili al pubblico che vorrà capire qualcosa di più delle origini delle Contrade e del loro protagonismo nell’animato calendario civico. Risalgono al 1585 circa, non sono coeve all’avvenimento. Opere di un autore sensibile a un minuto descrittivismo di maniera fiamminga, sono eseguite sulla base della divertente cronaca di un tal Cecchino cartaio – libraio cioè –, puntuale come un dettagliato reportage giornalistico. Non è escluso che derivino da quadri perduti. Ne esistono più copie: e ciò si deve alla rilevanza che ebbero da subito in un’iconografia tutt’altro che abbondante. Per un verso attestano, infatti, le forme che l’«attività rionale di tipo aggregativo» (G. Mazzini) radicata in Siena dall’età comunale assume in chiave ludica prima di sfociare nel Palio moderno, per l’altro sottolineano la funzione teatrale che la piazza-cuore della città era destinata a prendere con sempre maggior evidenza. Se il Palio nella sua complessa ritualità non fosse stato dagli inizi del Seicento dislocato per prova, poi stabilmente, nel Campo, e gestito da quelle curiose corporazioni territoriali che sono le Contrade forse non avrebbe posseduto un’ incredibile continuità.
Il Rustici, membro di un’industriosa famiglia di artisti, dipinge due fasi complementari: il lungo corteo che lentamente si annoda nella conchiglia e la movimentata caccia che seguiva. Ogni schiera di contradaioli è preceduta da una macchina lignea gigantesca modellata con le fattezze dell’animale-totem assunto a simbolo di uno specifico territorio urbano e partecipa a una contesa non agonistica: è piuttosto una gara di calcolata e sfarzosa magnificenza. La prima Comparsa a sfilare è quella degli ottantaquattro del Bruco, guidati da una capo-caccia «putto molto bello e altero, vestito tutto di raso turchino con trine a raccami d’oro». Dietro incedono i giovanotti della Lupa e poi quelli di Drago, Giraffa, Istrice, Civetta e così via. Fin d’allora le Contrade erano diciassette, come oggi. Ma è la seconda fase a eccitare il cronista Cecchino, un «ometto spiritoso e galante», stimato e ammirato dal gentil sesso. Tamburi e trombe tacciono. Il frastuono cede a un silenzio rotto solo da squilli di corni e cornette. La caccia ha inizio: dalle frasche spuntano lepri e volpi, spauriti animaletti in cerca di rifugio. «Vedevansi gli istrici fuggire – scrive l’attentissimo autodidatta in una sgangherata prosa – con le spine dritte, difendendosi da’ morsi de’ cani, ma non già dell’industria degli uomini che li pigliavano». Ad un momento fatale – alle cinque della sera? – il minaccioso rumore di un toro crea il deserto. Con furia devastante scaglia a terra intraprendenti ragazzi che escono dalla macchine in postazione e lo aggrediscono con le loro aste. Hanno facilmente la meglio e lo abbattono trionfalmente. Uno dopo l’altro i tori condividono la sua sorte. Infine irrompe un toro che Cecchino qualifica il Rodomonte de’ tori: «perché giunto in Piazza, parve un fulmine». Barcolla e cade in cinque sei luoghi, è circuito beffardamente e «ritenuto piacevolmente» da un tal Meo delle Baje, che riesce con ingegnosa abilità a imprigionarlo in una rete. Il malcapitato dopo aver subito innumerevoli traversie infine «restò morto valorosamente, non senza dispiacere universale». La frase è ambigua. Gli spettatori sono dispiaciuti perché ha avuto termine la virtuosistica esibizione dei giovani o per un moto di pietà per la caduta del debilitato bestione? Quando cala il buio la Caccia si conclude con soddisfazione degli astanti: «Essendo già notte saltarono in Piazza l’insegne e le livree e ferno la loro rassegna uscendo di Piazza senza un minimo tumulto o scrupolo». Le due famose tele non sono le sole che tramandano un uso eccezionale del Campo. E vien da chiedersi perché quella festa crudele meritò tanta risonanza. Eppure la Repubblica aveva i giorni contati. Fatto è che l’avvenimento si prestava a sfoderare il persistente orgoglio di una comunità affezionata alla propria araldica e tesa a ribadire attraverso le Contrade la fierezza di un’ormai fragile indipendenza. Del resto non ebbe il sapore assurdo di una sfida la Caccia che nel 1555 il governo comandò di effettuare a Montalcino quando già si era lassù ritirato nel vano tentativo di una resistenza? La tauromachia era metafora delle capacità di domare i tori più riottosi, di sconfiggere le insidie del nemico. Anche nel ripercorrere col pennello la giornata memorabile del 1545, onorando gli emblemi senesi nonostante la dominazione medicea, Vincenzo Rustici aveva obbedito a non sopiti impulsi ribelli, che si sarebbero riversati nel Palio. Ed erano eterodossi pure nei confronti della Chiesa postridentina, che decretò la soppressione dei mortiferi riti. Il Granduca Ferdinando I si adeguò. E Siena si allineò più tardi, se è vero che quattordici delle diciassette Contrade si esibirono nel 1597 nell’ultima nostalgica Caccia.
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