Ma il popolo democratico è deluso, in ginocchio. Ha passato una nottata difficile. Anche a New York. “Allora sei tornata qui?” “Sì. Sto a Trenton”. “Trovato niente altrove?”. “Niente. Ho cercato lavoro a casa dei miei, Guatemala City. Ma niente”. “Contenta?” “Boh. Ho l’impressione di aver scelto il momento sbagliato per tornare”. Il dialogo si svolge tra una donna delle pulizie e un agente della sicurezza nella hall centrale di Port Authority, la stazione dei bus di New York. I due si devono conoscere da un po’. Non si dicono altro. Lei alza le spalle. Lui si guarda in giro, senza sapere cosa fare. Non c’è del resto bisogno di dirsi molto di più. Entrambi sanno, lo immagina anche chi ruba la loro conversazione, che il “momento sbagliato” per tornare negli Stati Uniti è la rielezione di Donald Trump. Quello che diventerà il 47° presidente degli Stati Uniti ha già promesso, per gli immigrati illegali, “un’opera di deportazione di massa”. Trump sa bene – qui è il segreto di Pulcinella – che questi “illegali” lo sono solo sulla carta. Nella realtà, è gente senza la quale l’economia e la vita degli americani, smetterebbero di funzionare. È gente che lavora in nero. Che lavora prendendo a prestito il nome di morti non registrati. Poco importa che tutti sappiano. Nei momenti difficili, quando il contorno delle cose si fa meno netto, un capro espiatorio salta fuori sempre.
Gli “illegali” sono il capro espiatorio dell’America 2024. Quando il dialogo tra la donna e l’agente ha luogo, sono circa le sei di sera di martedì 5 novembre. È qui che inizia il nostro viaggio nella città, a cavallo tra chiusura dei seggi e arrivo dei primi dati, preludio alla disfatta democratica. L’area attorno a Port Authority è intasata di traffico, spazzatura, gente che corre disperatamente a casa e disperati che chiedono di dargli un paio di centesimi. Insomma, la solita vita.
C’è una lunghissima fila che gira l’angolo della 33ª. Per gli standard newyorchesi, non potrebbe che essere gente in attesa davanti a un ristorante. In realtà, si rivela essere una fila di elettori fuori da una scuola, dove è allestito un seggio. “Non è commovente?”, Victoria è una signora sulla cinquantina. Fa molto caldo per essere una sera di novembre. Si fa aria con una copia del New York Times. “Cos’è commovente?” “Quello che vedi. La gente in fila per votare alle otto di sera. Non ce ne sarebbe bisogno. A New York, Trump non vincerà mai. Eppure la gente aspetta ore per votare. Abbiamo una gran voglia di testimonianza, immagino”. “Testimoniare cosa?”. “Che non siamo Trump. Che l’America non è la nazione di Trump”. “Perché?”. “Perché non sarei qui, in coda. Perché non resterei qui. Mio fratello mi dice di andare dove sta lui, in Israele. Gli rispondo sempre: col cavolo, in quel posto di pazzi ci stai tu. C’è una cosa che mi fa paura, adesso. Che torni il 2016. Scontri, polemiche, ogni giorno qualcosa di brutto…”. Scendendo ancora più a sud, direzione l’East Village, la sera del 5 novembre si assiste a un altro fenomeno singolare. Supermercati affollati all’inverosimile, dopo le 9 di sera. “Facciamo le scorte. Ci sono un sacco di watch party negli appartamenti”.
Juan Florez è un ragazzo sulla trentina. A lui, il caldo ha fatto indossare una canottiera grigia. Esce da un Whole Foods insieme a una ragazza bionda, con un cesto pieno di sacchetti di patatine. “Sono gay. Sono messicano. Non è una questione politica. È una questione antropologica. Non posso votare Trump”. “Sembra che molti ispanici vogliano votarlo…”. “Non lo so. Ora non ci voglio pensare”. “Hey, mi sembri fuori del mondo – gli dice ridendo la sua amica –. Ma vedi quello che sta succedendo?”. La ragazza è convinta che Harris non vincerà mai. “Perché è una donna. Perché è nera. Perché l’America oggi è più Trump che Harris. Scema io che mi sono fatta convincere a venire al vostro watch party del cavolo”. L’ultimo incontro utile per questo viaggio attraverso Manhattan, la sera del 5 novembre, avviene diverse ore dopo. A quel punto, molto è già successo. I democratici sono destinati a una disfatta di proporzioni storiche. Molti ispanici, soprattutto uomini, insieme a molti neri, hanno votato per Trump. L’America ha dimostrato di essere la nazione di Donald Trump. “C’è una cosa che non capisco”. Andrew è un biondino alto e magro. Studia alla New York University. È venuto a Times Square con gli amici, per assistere sui grandi schermi alla serata elettorale. “Cosa non capisci?”. “Come fa la gente a votare uno che dice che gli darà meno libertà?”. “Forse perché gli dice che li farà stare meglio. Lavoro, sicurezza”. “Bullshit”, stronzate, risponde sorridendo. “Farai manifestazioni, se ci saranno, in università?”. Ci pensa. “Sì. Se ci saranno. Sì”. Poi, con gli amici, se ne va. Times Square si svuota. Resta un’isola abbagliante e deserta, mentre la città intorno abbassa le luci.