Ancora una volta, dobbiamo rileggere Norberto Bobbio per capire quello che sta succedendo nella “Nuova Italia” di Giorgia e dei suoi Fratelli.
Nel maggio dell’84, in tutt’altro contesto storico, il filosofo torinese coniò la formula definitiva che in quasi mezzo secolo, tra imposture morali e forzature costituzionali, ci ha portato dal proto-cesarismo craxiano al neo-autoritarismo meloniano (passando per il populismo nelle sue più pericolose o spassose declinazioni: hard con Berlusconi, lightcon Renzi, pop con Grillo, pulpcon Salvini). «La democrazia dell’applauso», era la deriva che Bobbio presagiva già allora. E che adesso è ormai politica realizzata.
Dispositivo di potere. “Macchina” che non contempla il dissenso, ma che ambisce ad affiancare, fino a renderli fungibili e intercambiabili, il consenso e l’assenso. Il primo si cerca, il secondo si pretende. Etertium non datur .
L’uno-due di queste ore, per i Patrioti, è quasi da prove tecniche di regime. Il terzo Decreto Sicurezza appena licenziato dal Consiglio dei ministri — tra più galera per tutti (a partire dalle mamme incinte preferibilmente rom) e più pistole private per i poliziotti in licenza — è l’ennesima prova di un “cattivismo” che muove quasi in automatico l’inutile braccio violento della legge. Un delirio securitario che trasfigura un grande Paese occidentale in una grande Colonia Penale e lo Stato di diritto in Stato Etico, dove le pene edittali e le manette seriali risolvono tutto. Soprattutto se applicate a qualunque forma di “devianza”, sanzionata naturalmente dal Codice Morale e Penale di chi amministra la giustizia.
Poi c’è la battaglia contro lo sciopero generale. Si può essere più o meno d’accordo sulle ragioni che lo hanno giustificato. Si può condividere o meno la piattaforma sindacale o persino ideale che ha chiamato quasi 100 mila persone a Piazza del Popolo. Ma il modo in cui il governo ha tentato di delegittimare quella protesta, e poi di fermarla con l’intervento della Commissione di Garanzia, riflette esattamente questa idea di esercizio della sovranità e della potestà politica, dove conta solo l’auctoritas e dove la polisè tollerata solo se batte le mani. Questo vale per tutte le sfere e tutti gli attori della scena democratica. Dai sindacati ai magistrati, dal Quirinale al Parlamento, dalle istituzioni agli organi di garanzia.
Le destre al comando, in serio affanno sull’economia e in confusione totale sui migranti, accentuano la curvatura ideologica e illiberale dell’azione e della comunicazione di governo. Con i gesti simbolici: la parata di stelle alla mostra su Tolkien — tra la nostalgia per i nani, gli elfi e i draghetti dei campi Hobbit e l’orgoglio per aver espugnato la Terra di Mezzo — è stata divertente ma anche inquietante. Con gli atti pratici: il decreto Piantedosi, appunto.
Fatte le debite proporzioni, rientra in questa logica intollerante e falsamente securitaria anche la precettazione decisa da Salvini, che oggi accusa le confederazioni di «sabotare l’economia» solo per farsi un po’ di «weekend lunghi», mentre nel 2015 urlava esagitato: «Blocchiamo l’Italia per tre giorni da Nord a Sud, e mandiamo a casa il governo dell’altro Matteo». Dalla legge del ’90 è la prima volta che un ministro dei Trasporti precetta i lavoratori durante uno sciopero generale. E alla fine è stato proprio il Capitano Leghista a “politicizzare” la protesta, che era nata contro la manovra ma si è fatalmente e giustamente caricata di motivazioni più profonde e di implicazioni più feconde. La piazza di quelli che non ci stanno. E quand’anche abitino su Plutone (come scrivono i maestrini con la penna rossa), impoveriti e impauriti come sono non rinunciano a contestare i “fascisti su Marte” (per riesumare la strepitosa satira di Guzzanti), che invece continuano a descrivere l’Italia come un pianeta ricco e felice, appigliandosi al solo dato dell’occupazione a tempo determinato, senza vedere che il disagio economico cresce e la marginalità sociale si allarga.
Questa legge di bilancio non è migliore né peggiore di altre che l’hanno preceduta. Contiene alcune misure accettabili (il cuneo fiscale), altre mediocri (la poca spesa sanitaria), altre dannose (l’Iva sui prodotti dell’infanzia), altre ancora criminogene (la solita gragnuola di condoni). Ma ci vorrebbe rispetto per i sindacati italiani, che hanno commesso tanti errori ma restano i più seri e responsabili forse nell’intero Occidente. Negli ultimi dieci anni la curva degli scioperi rispetto alle ore lavorate è crollata sotto l’1%.
In America i 47 mila operai dell’automotive hanno incrociato le braccia per oltre un mese, spuntando aumenti salariali del 38%. In Germania i macchinisti hanno appena varato un pacchetto di 20 ore di sciopero per chiedere a Deutsche Bahn aumenti salariali e riduzioni d’orario.
Landini non è Luciano Lama, capo carismatico della grande Cgil all’epoca del pan-sindacalismo metalmeccanico di fine Anni ’70 e degli accordi con Agnelli sul punto unico di contingenza. Ma non è nemmeno Ezio Gallori, il Masaniello dei neonati Cobas che negli Anni ’80 devastò il trasporto tricolore con Locomotiva Selvaggia.
Non è Arthur Scargill, leader della rivolta dei minatori contro le chiusure di Margaret Thatcher durata un anno intero, tra l’84 e l’85, tra scioperi sistematici, occupazioni continue e scontri violenti che fecero due vittime. E non è Priscillia Ludosky o Éric Drouet, i portavoce dei Gilets Jaunes che per due anni consecutivi tra il 2018 e il 2019 hanno messo a ferro e fuoco Parigi e le città francesi, lasciando sul campo una dozzina di morti tra i manifestanti e 1.048 feriti tra gli agenti della Gendarmerie. Può anche darsi che un giorno Landini farà politica, ma non è questo il tempo. E tuttavia, con la sua offensiva sgangherata, Salvini ha dato a questo sciopero una portata e una dignità politica che non aveva. E Meloni ha lasciato fare, surfando sulla scivolosa e bugiarda propaganda di Palazzo, quella del “doppio registro”, che vuole “lei migliore dei suoi”.
La realtà è un’altra. In modo più o meno programmato, “lei” e i “suoi” si dividono il lavoro, e alla fine giocano la stessa partita.
Come ha scritto Francesco Bei, c’è un filo visibile che tiene insieme queste sparate contro lo sciopero, il Frankenstein dell’annunciata Riforma Presidenziale e l’ipotesi di un’altra mostruosa legge elettorale con liste bloccate e premio di maggioranza smisurato. Il piano, ancora una volta, è l’anno zero, dell’Italia e della Sorella che la guida: il Paese deve “costituzionalizzare” l’anomalia meloniana (come già accadde con quella berlusconiana), accettando la riscrittura della Carta, finalmente forgiata dalla fiamma del partito di Giorgia, che invece non poté ardere su quella del ’48.
Una Costituzione da far rinascere nella forma, con il “golpetto” del Premierato all’italiana che riduce il Presidente della Repubblica a Re Travicello e il Parlamento a bivacco di manipoli. E nella sostanza, con la disarticolazione dei corpi intermedi e della concertazione. Così la Draghetta Khy-Ri, dopo aver finalmente gettato l’Unico Anello nel fuoco, potrà mutarsi in Regina e guidare senza intralci né fastidi il suo Regno. Dove conta solo il partito che “vince” il super-premio alle elezioni (cioè il suo) e dove tutto il resto può solo applaudire.
Di fronte a questa regressione democratica fanno bene Landini e Bombardieri a presidiare responsabilmente la piazza. E fa bene Elly Schlein — opponendo l’argomento inoppugnabile dell’urgenza di un confronto a viso aperto davanti alle Camere — a non andare a farsi impallinare ad Atreju. L’ultima trappola ordita da Frodo Baggins per sconfiggere Sauron, l’Emissario del Male. Da Bobbio a Tolkien: un bel salto, per la nostra “povera Patria”.