Al cinema lente d’ingrandimento sul conflitto sociale
23 Novembre 20222023 program
23 Novembre 2022di Elsa Fornero
Al lungo e travagliato Consiglio dei ministri di lunedì sera non c’erano soltanto la presidente Giorgia Meloni e i titolari dei dicasteri del suo governo. Un invisibile “convitato di pietra”, che peraltro non ha aperto bocca, era egualmente presente, magari dietro le quinte o nascosto nella “buca del suggeritore”, pronto a intervenire per “invitare” alla prudenza i ministri più irruenti e meno responsabili e per raccomandare aderenza a un copione in larga misura già scritto.
Questo convitato è l’Europa che con la sua presenza discreta ha ammonito i ministri sulla limitatezza, di fatto, dei “gradi di libertà” nelle scelte, anche per un governo politico eletto dal popolo. La legge di bilancio 2023 approvata ieri notte dal governo non contiene, infatti, elementi dirompenti, né in senso distruttivo, né in senso costruttivo. Se da un lato permette di tirare un respiro di sollievo rispetto ai rischi che dichiarazioni quasi bellicose in campagna elettorale avevano fatto presagire, dall’altro non genera alcuna fiducia sulla possibilità per l’Italia di imboccare finalmente una strada di crescita, economica, sociale e civile. Lo scenario più probabile è che – passate, sperabilmente in fretta, l’emergenza energetica e l’aggressione della Russia all’Ucraina, che ne è la causa principale – l’Italia continuerà il percorso di stagnazione dal quale non riesce a staccarsi da almeno due decenni.
La notevole distanza rispetto alle promesse (minacce) elettorali, di chiara valenza identitaria destrorsa, si deve proprio all’Europa (e ai mercati finanziari, pur se le loro motivazioni sono meno nobili di quelle della Ue). È vero, c’è una dose eccessiva di sgradevole retorica ideologica su alcune misure (reddito di cittadinanza, pensioni, fisco), considerate anticipatrici di “vere riforme” da realizzarsi nei mesi a venire, sulla credibilità delle quali, peraltro e per fortuna, è lecito nutrire seri dubbi. Sulla fine del reddito di cittadinanza, che trova eco nei giornali più simpatizzanti (“buon lavoro, fannulloni”, con totale insensibilità verso un problema delicatissimo che interseca povertà e lavoro), è evidente il divario tra la tracotanza del passato (“togliere il metadone di stato”) e il procedere cauto, per evitare di soffiare sul fuoco della possibile rivolta di una parte del Paese, che di quel reddito vive. Una cautela che – si può scommettere – continuerà, impedendo, di fatto, lo smantellamento della legge bandiera del governo giallo-verde, del quale la Lega era parte. Si accorgerà, infatti, il governo di quanto sia difficile definire, in pratica, l’«occupabilità» delle persone, che non coincide soltanto con un’età di lavoro e l’assenza di malattie o di disabilità, ma dipende spesso da fattori esterni, poco dipendenti dalla volontà dei singoli (una situazione famigliare di forte disagio, la mancanza di occasioni, lo scoraggiamento che deriva da una ricerca a lungo infruttuosa, un’impreparazione sostanziale ad affrontare pur piccole responsabilità). Pensa davvero, la presidente Meloni, che i corsi di formazione professionale – sui quali hanno insistito tutti i governi degli ultimi decenni – possano decollare soltanto perché ora c’è un governo politico dai metodi spicci, che intende usare più il “bastone” che non la “carota”? Ha idea dello stato di abbandono nel quale versano le politiche attive esattamente nelle regioni che più ne avrebbero bisogno? È facile perciò prevedere che la gradualità del presente si trasformerà in accettazione, magari mascherata, nel futuro giacché cambiare motivazioni, comportamenti, attitudini e, al tempo stesso, rendere efficaci le amministrazioni pubbliche richiede tempo e costanza.
La legge di bilancio è “prudente” anche sull’altro smantellamento sempre annunciato, quello della riforma previdenziale del 2011. Anche in questo caso, verrebbe da dire, “tanto rumore per poco, se non per nulla”, in attesa di una riforma strutturale che arriverà, si promette, nel corso del 2023. Nuovamente, una domanda è d’obbligo: credono davvero Meloni e il ministro dell’Economia Giorgetti che in autunno vi saranno le risorse, oggi assenti, per una riduzione stabile dell’età di pensionamento e per pensioni complessivamente più generose? Si rendono conto che la spesa è già, di per sé, avviata a una forte crescita nei prossimi anni a causa dell’inflazione e dell’invecchiamento? Possibile che nessuno abbia avuto il coraggio di dire che la previdenza poggia su due fondamenta – una demografia sostenibile e un’economia con occupazione e redditi in crescita – oggi pericolanti nel nostro Paese? Basterebbe guardare le proiezioni demografiche per capire che, nei prossimi decenni, ci saranno sempre meno giovani per pagare le pensioni di un numero crescente di anziani. Si vorrà allora procedere con un aumento del debito, aggravando uno squilibrio generazionale già oggi preoccupante?
Il ministro Giorgetti ha parlato di coraggio, responsabilità e sostenibilità della legge di bilancio. Dovrebbe per coerenza dire chiaramente che nessuno di questi elementi è compatibile con una controriforma delle pensioni, rispetto all’impostazione scelta nel 1995 e ribadita, con un’accelerazione della transizione, nel 2011.
Infine, il fisco. Davvero ritengono, Meloni e Giorgetti che sarà possibile procedere stabilmente a una riduzione delle imposte, mantenendone la progressività, se nel frattempo si ammicca agli evasori con ennesime misure di condono mascherato e con l’incoraggiamento all’uso del contante? Dal governo Meloni, in definitiva, arriva una legge di bilancio senza infamia ma certo senza lode. Una legge che non farà, di per sé, salire il famigerato spread e non ci condurrà, in tempi brevi, a una riproposizione dell’emergenza finanziaria del 2011 (quando molti degli attuali governanti avevano responsabilità di governo). Possiamo sperare, criticando e pungolando il governo, che il tempo “comprato” oggi trasformi la prudenza in vero coraggio per le scelte strutturali delle quali il Paese ha grande bisogno e che non sono quelle annunciate?