Gli autori
La falsa narrazione dell’italiano “colonialista buono”
Giovanni De Luna
Se noi italiani siamo così, lo siamo non perché lo siamo nati ma perché lo siamo diventati. A “farci” quelli che siamo sono stati tanti soggetti diversi: le istituzioni, certamente, con la scuola e i suoi racconti, poi i mezzi di comunicazione di massa, la TV, il cinema, il mercato, il cibo che abbiamo mangiato e che stiamo mangiando, quello che in passato abbiamo consumato e che ora consumiamo, e via dicendo.
L’Italia liberale aveva un suo progetto di “fare gli italiani” usando i prefetti, la leva obbligatoria, una tradizione “inventata”, incentrata sulle vicende dei Savoia e sull’epica del Risorgimento; il fascismo aveva come obbiettivo quello di “fascistizzare” gli italiani attraverso il culto del Duce, la romanità, il partito unico, le adunate oceaniche, e altri simili mezzi; i partiti di massa della Prima Repubblica (la Dc e il PCI) volevano farci diventare cittadini democratici, elettori disciplinati, fedeli a un’idea di religione civile fondata sull’«arco costituzionale» e sulle forze politiche che lo avevano varato. Insomma sono stati e tanti e diversi i progetti che hanno voluto “farci”: a ognuno di essi corrisponde una fase della nostra storia unitaria; in chiave storiografica, in ognuno è possibile distinguere le analogie e le differenze con gli altri, attraversando le continuità e le rotture che hanno segnato il percorso attraverso il quale siamo diventati italiani.
Tra queste “continuità”, una delle più vistose è quella che ci propongono ora Deplano e Pes in un bel libro che racconta il nostro colonialismo dalle origini – da quella baia di Assab, sul Mar Rosso, dove nell’Ottocento cominciò l’avventura africana dell’Italia liberale – fino agli eventi che hanno portato alla fine del regime di Gheddafi in Libia e al tramonto di ogni nostra ambizione egemonica su quelle che furono le antiche colonie italiane (Eritrea, Somalia, Libia e, per soli cinque anni, Etiopia).
È un libro che deve la sua utilità anzitutto al modo in cui ci propone uno sguardo di insieme, rompendo i compartimenti stagni in cui è stata tradizionalmente confinata la storia coloniale per immergerla compiutamente nel complesso della storia italiana. Ma è anche e soprattutto un libro utile perché ci racconta quali immagini, valori, luoghi comuni hanno forgiato la narrazione che ci ha fatto diventare quelli che siamo e che segnano oggi la nostra incapacità di misurarci concettualmente con la “diversità” di quelli che negli ultimi trent’anni sono arrivati in Italia da mondi estranei alla nostra cultura e alla nostre abitudini.
Non eravamo preparati. È un po’ come la storia di “italiani brava gente”, più uno stereotipo che una realtà. Dall’Italia liberale fino all’Italia repubblicana e agli anni settanta del Novecento il racconto che ha dominato nell’opinione pubblica è stato quello fondato sull’italiano “colonizzatore buono”, andato in Africa per lavorare, dissipando energie e risorse per aiutare quelle popolazioni a “civilizzarsi” e costruendo strade, infrastrutture, scuole, ospedali, aziende agricole modello. Una narrazione che assumeva come presupposto storiografico l’interpretazione “parentetica” del fascismo, a suo tempo proposta da Benedetto Croce, che nel ventennio mussoliniano vedeva solo una fastidiosa parentesi da rimuovere e cancellare.
Il fascismo con il suo razzismo esplicito, l’esaltazione dell’«uomo bianco» come valore assoluto, la sua legislazione segregazionista, la colpevole indifferenza verso i diritti civili dei popoli colonizzati (ma anche di quelli che avevano avuto la sfortuna di essere afro-italiani), la durezza repressiva, le stragi (orrenda quella del santuario di Debre Libanos, dove i fascisti di Graziani massacrarono più di duemila etiopi tra monaci e fedeli) in quella narrazione veniva accantonato, messo da parte.
Ora non è che il libro di Deplano e Pes contrapponga stereotipi a stereotipi, l'”italiano cattivo” all'”italiano buono”, l'”italiano aguzzino” all'”italiano pioniere”; semplicemente àncora i suoi giudizi alla solidità della ricerca storica, e ci costringe a riflettere sul perché – così come molti altri popoli europei, i francesi soprattutto – siamo ancora schiavi di pregiudizi che nascono proprio da quella narrazione.
Il pregiudizio, ce lo ha ricordato Norberto Bobbio, è molto peggio dell’ignoranza. Questa la puoi combattere ampliando il campo del sapere e usando come armi efficaci i tanti buoni libri sui quali è possibile documentarsi; il pregiudizio, invece, è «credere di sapere senza sapere» e ha ricevuto un poderoso impulso dal tipo di conoscenza resa possibile dalla rete, che ha anche segnato l’avvento della sua egemonia nel senso comune: l'”altro” non è solo “diverso” per il colore della pelle, la lingua, la religione ma è “inferiore” proprio a causa di queste “stimmate”.
È così che oggi molti discorsi sugli stranieri che abbiamo in casa nostra somigliano a quelli sugli Assabesi, “messi in mostra” a Torino, all’Esposizione generale italiana, nel 1884: creature quasi animalesche, da osservare con curiosità come bestie allo zoo e, soprattutto, da tenere in gabbia per evitare che diventino pericolose. Il fatto che sia passato più di un secolo, non sembra aver nemmeno scalfito sentimenti di questo tipo.