Omero che incontra Rossini: il west di Leone & Morricone
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15 Settembre 2024di Giulia Ziino
«Proust un giorno si è messo a letto e non è mai più uscito; Agatha Christie scriveva nella vasca da bagno; Rousseau era masochista ed esibizionista; Freud aveva paura dei treni; Hitchcock delle uova». Che genio e sregolatezza vadano a braccetto è un’idea dalle radici antiche. Rosa Montero, romanziera e giornalista spagnola (scrive su «El País»), ne è rimasta affascinata: partendo dalla sua esperienza personale (ha sofferto di attacchi di panico per anni) e da quello che ha letto su altri creativi, ha cominciato a fare ricerche sul tema. Studi universitari, saggi di neuroscienze, statistiche: più di tre anni di lavoro sfociati in un libro difficile da incasellare — Il pericolo di essere sana di mente, ora tradotto in italiano da Bruno Arpaia per Ponte alle Grazie — che ha la mole di dati di un saggio e la forza narrativa di un romanzo. Sotto la lente, l’idea che esista un nesso tra creatività e follia. E una domanda da cui partire: esiste davvero la normalità? «No — dice Montero, raggiunta da “la Lettura” via Zoom a Madrid —: uno studio dell’università di Yale del 2018 è arrivato alla mia stessa conclusione. Chiamiamo “normale” quello che è valido per la maggioranza delle persone, è una questione di media statistica. Ma la realtà è che ognuno di noi differisce per qualcosa da questo parametro di “normalità”: chi fa più fatica a riconoscersi nel modello vive una condizione di perenne sofferenza. Non parlo di malattie mentali, che esistono, ma non è questo il caso: divergere dallo standard è di molti e non è patologico».
L’etichetta di «folle» è stata usata per reprimere chi non si allineava.
«Quando non ci si adatta a questa cornice di “normalità”, si viene puniti. È successo agli omosessuali, ai nomadi e molto alle donne. Soprattutto nel XIX secolo, forse il più terribile secolo della storia per le donne: l’arma della follia è stata usata per reprimerle, per tenerle letteralmente legate, torturate con metodi spacciati per terapeutici. Tuttora accadono queste cose in alcuni luoghi del mondo».
Nel suo libro si chiede se il disagio mentale sia più legato alla genetica o al contesto sociale.
«La mia idea, e credo oggi sia anche quella della maggioranza dei neuroscienziati, è che l’orgine sia al 50% genetica e per l’altro 50 legata all’ambiente. Già gli antichi, come Aristotele, sapevano che la malattia della mente ha un legame con la fisicità, che è anche malattia del corpo. Circa due secoli fa questa convinzione si è persa e abbiamo cominciato a considerare la malattia mentale come qualcosa di esoterico, misterioso, cosa che ha avuto conseguenze pesanti su chi ne soffriva. Dire che la malattia della mente è malattia del corpo, però, non significa pensare che l’ambiente non abbia un suo ruolo».
L’immagine di un genio-folle non stride con quella della routine di lavoro descritta da tanti scrittori?
«Dobbiamo metterci d’accordo su cosa intendiamo parlando di follia. Qui non parliamo di disturbi gravi, di psicosi severe: chi è in preda a un attacco psicotico smette di essere creativo. Quelle di cui scrivo nel libro sono persone creative il cui cervello procede diversamente da quello degli altri: in queste persone, e io sono fra loro, il cervello è rimasto “immaturo”, ha saltato cioè uno degli step della maturazione, quello che intorno ai 12 anni “taglia” alcune delle connessioni che fanno i neuroni. Questo avviene in modo che, crescendo, ci si possa concentrare su cose utili come procurarsi il cibo o distinguere i pericoli, ma un buon 20% della popolazione salta questo passaggio e mantiene la capacità di fare connessioni meno “pratiche”. Siamo noi creativi, ma anche chi soffre di malattie mentali: i nostri cervelli sono ugualmente in grado di fare queste iperconnessioni, la differenza è quantitativa, non qualitativa».
Ha scritto il libro anche per far parlare di disagio mentale.
«Oggi c’è ancora un’incredibile mancanza di conoscenza sulla malattia mentale. A cominciare dal fatto che non ne esiste una sola ma tante, che hanno origini diverse e sono molto differenti tra loro. Alcune durano per sempre, altre sono casi isolati nella vita di una persona. Alcune sono molto gravi, altre più lievi, come gli attacchi di panico di cui ho sofferto anche io tra i 16 e i 30 anni. Chi non ne ha avuto esperienza, fatica a capire l’entità di questi fenomeni: si pensa genericamente all’essere ansiosi, depressi, ma quando hai un attacco di panico capisci che si tratta di tutt’altro, di una perdita totale del controllo sulla tua vita. Abbiamo bisogno di conoscere e di parlare apertamente della salute mentale e dobbiamo pretendere dai nostri governi che vengano stanziati fondi per medici e psichiatri. Con la pandemia molti hanno cominciato a parlarne, ma quel piccolo spiraglio si sta già chiudendo: dobbiamo lottare perché ciò non accada e parlarne divenga la norma. Si stima che il 20 o il 25% della popolazione mondiale abbia un problema di salute mentale una volta nella vita: significa una persona ogni quattro, noi stessi o qualcuno che ci è vicino».
Nel libro racconta storie come quella della donna che per anni si è spacciata per lei. Scrivendo, è stata più giornalista d’inchiesta o più romanziera?
«Come la maggior parte dei romanzieri, anche io ho cominciato a scrivere da bambina, a 5 o 6 anni. Dunque nasco come narratrice, il giornalismo è arrivato dopo. Ma oltre ai romanzi ho scritto tre libri “ibridi”, La pazza di casa (Frassinelli), La ridicola idea di non vederti più (Ponte alle Grazie) e questo : io li chiamo “artefatti letterari”, sono un misto di realtà e finzione, di biografie di altri e autobiografia, di narrativa e saggistica. Alcune delle cose che scrivo in questo libro sono incredibili eppure vere. Altre sono storie di finzione, ma non svelerò quali».
Perché?
«Perché riguarda un messaggio per me molto profondo: dice che questo è il mio modo di vedere la vita. Credo che la realtà sia piena di fantasia e immaginazione, che non sia molto “reale”: a volte ricordo cose che non so se ho vissuto davvero o se sognato, se le ho lette o mi sono state raccontate, ma io le sento tutte ugualmente reali».