Pur avendogli dedicato varie migliaia di pagine, le scienze sociali fanno fatica a interpretare il conflitto politico dei nostri tempi. Con molti dubbi, sembrano tuttavia esser giunte almeno a queste conclusioni: nelle democrazie avanzate – non stiamo parlando soltanto della Penisola – quel conflitto non è indipendente dalla distribuzione del benessere economico, ed è correlato forse ancor di più al livello d’istruzione e alla collocazione geografica. Gli elettori agiati, i più scolarizzati e i residenti nei centri più popolosi tenderebbero così a votare per i partiti tradizionali, mentre i meno abbienti, quelli che sono sprovvisti di titoli di studio e i residenti nei piccoli centri sarebbero più propensi a optare per le forze politiche di protesta.

Per come si è comportata anche in quest’ultima tornata elettorale amministrativa, l’Italia parrebbe confermare quanto meno il peso politico della geografia: il Partito democratico – partito tradizionale per eccellenza – ha dimostrato ancora una volta di avere radici solide nelle aree urbane. Potremmo ribattezzarlo “partito del Frecciarossa”, dato che è al potere nelle città toccate dal percorso tirrenico di quel treno: Torino, Milano, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Salerno. Detto questo, non è ancora per niente chiaro in quale modo i tre fattori menzionati sopra – portafogli, diploma e campanile – interagiscano l’uno con l’altro; se ce ne sia uno che pesa più degli altri; o se ci non sia per avventura un quarto fattore che sottostà agli altri tre e li condiziona tutti.

In un libro uscito una decina di anni fa (The Righteous Mind: Why Good People are Divided by Politics and Religion – nella traduzione italiana del 2021, Menti tribali. Perché le brave persone si dividono su politica e religione), lo psicologo americano Jonathan Haidt ha avanzato l’ipotesi che la divisione fra destra e sinistra abbia radici etiche. Con le dovute differenze, credo che le sue riflessioni possano essere estese anche alla divisione fra le forze politiche di establishment e i partiti cosiddetti populisti. Gli elettori delle due parti sarebbero moralmente differenti, insomma: quelli dei partiti di sinistra/di establishment sarebbero ispirati da un’etica individualistica e compassionevole, quelli di destra/populisti, invece, da un’etica comunitaria innervata da un senso più severo delle responsabilità individuali.

Lo psicologo è molto attento, fin dal titolo del libro, a sottolineare come questi due universi morali siano differenti l’uno dall’altro, ma non l’uno migliore dell’altro. Il primo tipo di moralità, continua Haidt, è storicamente e geograficamente raro: è un prodotto specifico della modernità nord-Atlantica ed è circoscritto all’Occidente degli ultimi due secoli. In tutti gli altri tempi e luoghi è stato di gran lunga predominante il secondo tipo, che comunque ha conservato un peso non indifferente anche nelle democrazie europee e americane.

Per quanto ne so – ma la letteratura è sterminata –, la teoria di Haidt non è stata messa empiricamente alla prova dagli studiosi di comportamento elettorale. Ma non mi sembra del tutto impossibile ipotizzare, sia pure con grande cautela, che i tre fattori di cui dicevo sopra – portafogli, diploma e campanile – siano per lo meno collegati alla differenza etica che lui descrive. Ossia, che individui moralmente integrati nella modernità occidentale siano anche più propensi a montare fino ai gradini più alti del sistema educativo e ad apprezzare gli stimoli, l’autonomia e l’anonimato delle grandi città. E che costoro, anche come conseguenza di queste due prime opzioni, abbiano poi maggiori possibilità di raggiungere una certa agiatezza economica.

A loro volta, un grado elevato d’istruzione, il benessere e la vita urbana sarebbero capaci di modificare la moralità degli individui, integrandoli sempre più a fondo nella modernità occidentale. Sarebbe in azione una sorta di moto circolare, insomma, per il quale una certa propensione etica porta a fare scelte esistenziali che la rafforzano sempre di più, o in direzione di una vita comunitaria nei piccoli borghi, oppure di una individualistica nelle grandi città. Un’osservazione spicciola frutto di qualche conversazione privata, non certo un dato statistico, pare confermare la presenza di questo meccanismo: osservatori intelligenti che in Italia dividono la propria vita fra metropoli e provincia hanno avuto modo di notare quanto radicale sia diventato l’estraniamento morale fra i due ambienti. Da una parte e dall’altra, persone che pure appartengono alla stessa classe sociale sembrano avere priorità, stili di vita, visioni del mondo profondamente differenti, quasi inconciliabili.

La riflessione di Haidt, in conclusione, sembra poterci avvicinare un po’ alla comprensione del conflitto politico dei nostri tempi. Ma ci consegna anche un panorama democratico poco rassicurante, attraversato da divisioni profonde e destinate ad approfondirsi. Ci consegna insomma una separazione netta fra il mondo del Frecciarossa e quello dei treni regionali: due mondi i cui abitanti leggono la realtà e agiscono su di essa sotto la guida di due moralità molto diverse, non si capiscono gli uni con gli altri né si attribuiscono reciprocamente alcuna legittimità.

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