Nell’arte di Megall il pop è contaminato dall’immaginario asiatico
7 Agosto 2022Caetano Veloso Cucurrucucu Paloma
7 Agosto 2022EDOARDO ALBINATI
1970
maria berlinguer
«Anni di piombo e d’oro, due metalli pesanti. Ma non si possono liquidare solo come gli anni della violenza che pure non ha interessato solo una sparuta minoranza, perché quel decennio è stato contrassegnato dalla creatività, dalla libertà, dalla fantasia e anche da grandi conquiste sociali». Edoardo Albinati, scrittore, ha raccontato ne La scuola cattolica gli Anni Settanta.
Che epoca è stata?
«Dai tredici anni fino ai ventitre ero immerso in quell’epoca, e quando ci sei dentro la vivi e basta, la capisci un po’ solo quando è trascorsa. Ci fu uno scollamento totale tra chi aveva la mia età, cioè gli adolescenti, e gli adulti, che hanno vissuto quegli anni in modo completamente diverso, se vogliamo molto più negativo. Per dire, noi stavamo a scuola, e il mondo della scuola ha poco a che fare con il resto del mondo».
Nell’immaginario i Settanta sono anni di violenza inaudita. Era solo una minoranza?
«Non è vero che la violenza riguardò una sparuta minoranza, toccò moltissime persone, non soltanto quelle che l’hanno esercitata o subita in modo diretto. Non restringerei il campo solo ai gruppi armati, c’era un’idea molto più spicciola, quasi spontanea, la sensazione di vivere pericolosamente. La violenza poteva essere amministrata in modo autonomo anche da piccolissimi gruppetti o da singoli, con motivazioni ideologiche spesso solo di facciata. Che qualcuno avesse le spranghe, o una pistola alla cintola o la mitraglietta sotto l’impermeabile senza essere un delinquente professionale era abbastanza normale. Io ne ho conosciuta di gente che l’ha portata, la pistola, o è stata un passo dal portarla».
A sinistra e tra i fascisti?
«I movimenti giovanili erano perlopiù orientati a sinistra, resta comunque interessante il contromovimento della destra neofascista che naturalmente aveva una tradizione forte nell’uso e nell’esaltazione della violenza, soprattutto quella gratuita, non volta a qualche obiettivo politico preciso ma celebrata nel nome del coraggio, dell’onore, con annesso il culto della bella morte. Ma questo fattore della violenza è stato fin troppo rimarcato, perché la medesima energia che alcuni mettevano nel distruggere, produceva innovazioni in campo sociale e artistico. Il brivido era lo stesso, i risultati opposti. Si tratta di un’epoca che magari alcune persone più grandi di me ricorderanno come catastrofica, ma che uno della mia generazione ha vissuto come molto appassionante, creativa, eccitante, anche perché rischiosa. Direi che erano anni in cui capitavano molte, molte cose».
Lei abitava a Roma nel quartiere Trieste, lo stesso degli assassini del Circeo. Guido, mentre era cominciata la mattanza delle ragazze, tornò a cena in famiglia.
«Ero in classe con uno dei fratelli di Angelo Izzo. E’ vero, il primo giorno del sequestro Gianni Guido tornò a casa a Roma per cenare con i genitori, mentre le ragazze erano già chiuse nel bagno della villa, prigioniere. All’epoca fu molto dibattuto il fatto che Donatella Colasanti e Rosaria Lopez appartenessero a un ceto sociale diverso dai loro aguzzini, ma a ben pensarci due su tre erano già stati condannati per stupro di ragazze di buona famiglia. Alla distanza, la questione di classe diventa relativa rispetto alla questione di genere. La verità è che la violenza sessuale non ha confine di età né di censo, quasi ogni donna è una potenziale vittima. E infatti, al processo fu anche la prima volta in cui il movimento femminista assunse quel delitto come problema collettivo. Era infatti assurdo il tentativo di ridurre il caso a un fatto individuale, i mostri, le mele marce, quando invece l’esemplarità di quella vicenda era una chiamata alla responsabilità collettiva. Lo diventò nel tempo e resta una pietra miliare nella storia sociale italiana. Ed è anche significativo che il delitto avvenga alla metà del decennio, nel 1975, e che venga replicata una violenza analoga, con una diversa formula, solo un mese più tardi con l’omicidio di Pasolini. Però se si riducono gli Anni ’70 solo a quello si prende una cantonata».
Cosa rifiuta e cosa rimpiange?
«Non rimpiango nulla. Però rifiuto la definizione di “Anni di piombo”, se non ristretta all’ambito del terrorismo politico. Sono stati anni di piombo e di oro, due metalli pesanti. Di quell’epoca ricordo una grandissima, sfrenata libertà, e si sa che la libertà può essere micidiale. E rischiosa. Le famiglie, che fino a pochi anni prima avevano esercitato un forte controllo, venivano di colpo messe fuori gioco. Oggi c’è un controllo sociale sottile e pervasivo anche se “morbido”. Noi partivamo per mesi e le nostre famiglie non sapevano nulla di noi. Ora io ho 4 figli sparsi per il mondo eppure volendo posso sentirli e vederli quasi tutti i giorni. Voglio poi ricordare ancora la grande offerta culturale, soprattutto nel cinema e nella musica. Ne La scuola cattolica faccio un’impietosa comparazione tra i film che ho visto io a 18 anni, e quelli che ha visto alla stessa età mio figlio nel 2011. Film che vedevamo al cinema, in prima uscita, non solo nei cineclub. Tutti dicono che ora la vita è super-accelerata, ma è falso, è più lenta. I fenomeni durano di più, i personaggi non tramontano mai, allora si avvicendavano con un ritmo vertiginoso. Anno dopo anno c’era un cambiamento clamoroso, e la giovinezza terminava di colpo. Oggi i ragazzi ascoltano i Led Zeppelin musica di 40 o 50 anni fa, come se io avessi avuto i dischi di Rabagliati. Infine, la libertà erotica: le ragazze della mia generazione sono state le prime a decidere liberamente se fare l’amore o non farlo, e con chi, e quando. Tutto questo conviveva con un’Italia tradizionalista. C’erano punte sociali avanzate dove si esercitava una morale “svedese”, ma al tempo stesso era ancora in piedi l’Italia bacchettona degli anni 50. Un contrasto formidabile».
Qual è il film del decennio?
«Tra i tanti, Cinque pezzi facili di Bob Rafelson, 1971, Jack Nicholson e Karen Black».