l’analisi
Lucia Annunziata
L’esercito di Israele ha sciolto una unità di riservisti, e ha rimandato alla base una divisione che era pronta a intervenire, come inizio «di una riduzione delle forze impiegate a Gaza». Con un altro annuncio, il governo di Gerusalemme ha fatto sapere anche che è pronto a lasciar passare navi che portano aiuti umanitari a Gaza, «immediatamente», come parte di una proposta per formare un corridoio umanitario da Cipro.
Questo ultimo annuncio è stato fatto dal ministro degli esteri Eli Cohen, in uscita dal governo (una decisione presa mesi fa) che ha spiegato che Inghilterra, Francia, Grecia e Olanda parteciperanno, con navi che possono attraccare direttamente di fronte a Gaza.
Segnali di rallentamento
Nel primo giorno del 2024 il governo di Gerusalemme sembra dunque inviare i primi segnali di un rallentamento delle ostilità nella Striscia. Ma sono espressione di decisioni pensate, di un processo che si sta sviluppando, o solo parte di un gigantesco gioco di segnali, mezze parole, un gioco di ombre con cui Israele, e tutte le altre nazioni coinvolte, stanno prendendo tempo o semplicemente salvando la faccia? Il dubbio permanente che avvolge l’iniziativa diplomatica che scorre parallelamente alla guerra di Gaza non si chiarisce nemmeno al raggiungimento di una data già messa in calendario. Washington ha detto, infatti, più volte nelle settimane scorse di aver chiesto a Netanyahu di chiudere a fine anno l’assalto a Gaza, per iniziare un nuovo percorso prestabilito verso una de-escalation. La data è arrivata, e i segnali si stanno moltiplicando da parte di tutte le parti coinvolte, incluse Hamas e Jihad – ma senza nessuna verifica sulla loro credibilità.
Il lavoro è ripartito, come abbiamo segnalato alcuni giorni fa, dal Cairo. Un grande Paese che sulla questione palestinese ha molto dato e molto sopportato, un Paese con forte collaborazione con l’Occidente – a differenza delle monarchie Sunnite del Golfo, che pure si sono mobilitate – tramite perfetto per una trattativa sul conflitto. La proposta del Cairo è stata, tra i primi Paesi, discussa con la Giordania di Re Abdullah, altra nazione che ha sempre avuto un ruolo – volente o nolente – nella tormentata storia palestinese.
Bozza di accordo in tre fasi
La bozza di accordo è costruita in tre fasi che iniziano con un cessate il fuoco, seguito dal rilascio degli ostaggi, e poi la creazione di un governo “tecnico” lo chiameremmo in Italia: “esperti” (è il termine usato nella bozza) che dovrebbero governare la Striscia di Gaza e il West Bank. Come si vede, è un piano molto ambizioso.
Parte da un cessate il fuoco della durata di due settimane, dedicato al rilascio di 40/50 ostaggi, in particolare donne, malati e anziani, in cambio del rilascio di 120-150 Palestinesi dalle prigioni Israeliane. Questo sostanzioso scambio permetterebbe di far procedere la discussione, e ottenere intanto l’allungamento del cessate il fuoco e il rilascio di altri ostaggi e Palestinesi in carcere. Il Qatar e l’Egitto stanno lavorando sulla bozza con tutte le fazioni delle organizzazioni palestinesi, incluso Hamas, in particolare sul governo di “esperti”, che dovrebbero governare Gaza e il West Bank mentre si chiariscono i dissensi e si trova una agenda comune che porti alle elezioni presidenziali e parlamentari.
Nel frattempo Israele e Hamas dovrebbero avere un negoziato bilaterale per trovare accordi «su tutto», dal rilascio di tutti gli ostaggi, alla liberazione di tutti i prigionieri, fino al ritiro di Israele da Gaza e l’impegno dei militanti palestinesi a non attaccare più Israele. Gli Egiziani hanno discusso le linee generali della proposta con Ismail Haniyeh, capo della braccio politico di Hamas, che ha visitato Cairo la scorsa settimana; e con il leader della Jihad Islamica Ziyad al-Nakhalah, arrivato al Cairo nel giorno di Natale.
Per quel che riguarda il più rilevante degli ospiti, gli Stati Uniti, è stata già annunciata una missione del Segretario di Stato Blinken, in arrivo questa settimana. È la sua quinta missione in Medio Oriente dal 7 ottobre. Gli Americani hanno anche inviato in Libano, Paese che rischia di esser trascinato nello scontro con Israele, un altro diplomatico di esperienza nella regione: Amos Hochstein uno dei Consiglieri di Biden sul Medio Oriente, cercherà di negoziare un altro patto bilaterale di cessate il fuoco fra Israele e Hezbollah.
Come si vede, le reazioni sono state fin qui buone in termini di interesse da tutte le parti in causa. Ma, a meno di un grande colpo di scena, cioè di una sorta di miracolo, non è per nulla chiaro perché potrebbe essere accettata. Si tratterebbe, in effetti, di una vera e propria riscrittura di quelli che sono stati fin qui gli equilibri della regione, saltati non a caso con l’attacco di Hamas.
Tutti i punti interrogativi
Le domande che suscita sono, infatti, tantissime. Ne elenchiamo alcune. In nome di quale promessa potrebbe Hamas accettare di farsi da parte per governare insieme all’odiatissima Autorità Palestinese – per non parlare di un governo “tecnico”? La forza di Hamas è costruita in contrapposizione oltre che di Israele anche dei palestinesi di Fatah. E a proposito di questi ultimi: per esercitare il loro nuovo ruolo dovrebbero condividere un potere che hanno tutto in mano nel West Bank per accordarsi su un nuovo processo elettorale con nuovo presidente e nuovo parlamento, insieme a Hamas e Jihad Islamica. Oltretutto prendendosi la rogna della striscia di Gaza. E per ottenere cosa?
Due popoli e due Stati
La parte più inquietante della bozza cairota – ma potremmo sbagliarci per cui val la pena di conoscerla meglio – è che mette insieme come se fosse un dato di fatto West Bank e Gaza, e tuttavia da nessuna parte in queste anticipazioni si fa riferimento alla soluzione di due popoli e due Stati. È possibile che venga considerata lettera morta da questo nuovo assetto?
Possibile. Tutti sanno in verità che quella denominazione è morta nei fatti. È morta con l’arrivo nei territori occupati di 500 mila coloni (ma potrebbero essere di più – i numeri sono parte della discussione) che vi hanno costruito i loro insediamenti. Il limitato spazio da cui è composta la terra di Palestina è oggi dunque solo un mito; se pure si volesse arrivare a due Stati, non c’è già più da oggi lo spazio per il secondo Stato. E dunque?
Vista dal punto di vista di Israele la bozza appare del tutto diversa da tutto quello che Israele vuole per il suo prossimo futuro, che è soprattutto l'”annientamento” di Hamas. Infatti, negli stessi giorni in cui la proposta è presentata, il governo di Gerusalemme, pur dando indicazioni positive, come si diceva, ha insistito sul fatto che la guerra continuerà comunque e sarà lunga. «Ci vorranno mesi e mesi», ha detto il Premier. Perché Israele dovrebbe, infatti, accettare la proposta cairota?
È vero che pesa lo scontento delle famiglie degli ostaggi, e di una parte di Paese che conta i molti morti dell’esercito e non vede il governo messo sulla strada di una stabilizzazione del conflitto. La sera della vigilia del fine anno una grande manifestazione ha protestato contro il governo a Tel Aviv. Tra i manifestanti anche Dennis Ross, ex diplomatico che ha lavorato con i Clinton. Un dettaglio che racconta quanto la questione Mediorientale sia rilevante per gli Usa. Infatti la pressione degli Stati Uniti rimane forte. Ma dalle scelte che vengono fatte dal governo Netanyahu emergono progetti sul prossimo futuro del tutto diverse da quelle che Washington vorrebbe da Israele.
Il “Corridoio Philadelphia”
Una vicenda, quella del “Corridoio Philadelphia”, racconta molto bene questa discrepanza di scopi. Durante la conferenza stampa di sabato, Netanyahu ha annunciato che il “Corridoio Philadelphia, che corre per 14 chilometri lungo il confine fra Gaza ed Egitto, «deve essere nelle nostre mani». Solo il controllo di questo spazio può «assicurare che Gaza rimanga smilitarizzata» quando il conflitto sarà finito. Il Corridoio, il cui nome Philadelphia non ha nulla a che fare con la città, è parte dell’accordo di pace del 1979 fra Egitto ed Israele, come zona cuscinetto tra i due Paesi. Dopo il ritiro unilaterale da Gaza deciso da Israele nel 2007, l’Egitto vi impiega 750 guardie di confine, mentre l’Autorità palestinese sorveglia il lato dalla parte di Gaza. L’intenzione di Netanyahu è stato considerato come un ritorno di Israele nel controllo di Gaza, e dell’Egitto. Un attacco alla sovranità nazionale del vero Cairo, che ha agitato il paese, e la coalizione araba.
Operazione anti-Hamas ed elezioni Usa
Infine, che dire dei “molti mesi” che servono a Israele per terminare l’operazione anti Hamas? Molti mesi significa arrivare almeno a dopo l’estate. Cioè in tempo per aspettare Donald Trump, l’uomo che potrebbe aiutare a capovolgere il rapporto di forza fra Usa e Israele. Ma che questo sia il “grande stallo” su cui ha puntato Bibi Netanyahu lo si è capito molto presto nello svolgersi di questa drammatica storia.