Gli atleti italiani non brillano più solo d’azzurro. Potrebbe suonare più o meno così l’invito alla riflessione e a gettare lo sguardo oltre l’apparenza. Perché il vero viaggio non consiste nel cercare nuove terre ma nell’avere nuovi occhi (tanto per parafrasare Marcel Proust) e provare a comprendere le profonde ragioni che si celano dietro le scelte individuali. In un’epoca in cui il concetto di identità nazionale è sempre più sfumato, ha ancora senso che il rifiuto di alcuni atleti a vestire la maglia azzurra sollevi polemiche?

Perciò, se le pallavoliste Elena Pietrini, Cristina Chirichella, Sara Bonifacio e Marina Lubian hanno scelto di non rispondere alla convocazione per la Nations League è importante non giudicare cadendo nei soliti luoghi comuni di stampo nazionalista. Anche se il saggio Velasco ha fatto opinione esprimendo un disappunto piuttosto netto: «Per me la porta è quasi chiusa. Un no è sempre un no e la Nazionale è speciale, non è un club» è legittimo da parte sua, nel ruolo di commissario tecnico deluso. È però fondamentale comprendere le cause delle scelte per non perdere di vista il senso che lo sport deve avere nella vita di chi lo pratica e per la società tutta.

Non si tratta esclusivamente di rappresentare una nazione, un tema che risuona ben oltre i confini del campo sportivo, toccando corde profonde nel rapporto che ciascuno di noi ha con il senso di appartenenza. Quello delle quattro pallavoliste è solo l’ultimo di una serie di casi letti quasi sempre in maniera distorta. Prima di questo, in ordine di tempo, vide protagonista Jannik Sinner che, reduce dal successo agli US Open, rifiutò la convocazione per la fase a gironi della Coppa Davis 2024 a Bologna: scelta che, sebbene presa in accordo con la Federazione, sollevò infuocate polemiche e lunghe disquisizioni sul rapporto tra essere altoatesini o risiedere a Montecarlo e l’italianità.

Il concetto di rappresentare il proprio Paese, nel bene e nel male, dalla nascita dell’olimpismo passando per le grandi guerre e la guerra fredda, tra valori e ipocrisie è comunque un tema che, suo malgrado, suscita forti emozioni sia tra gli atleti che tra il pubblico.

Ma prima dell’attaccamento alla maglia azzurra, prima di considerare se la scelta di indossarla o meno con fierezza passa attraverso il filtro delle motivazioni più intime che animano un atleta, c’è da valutare il modello organizzativo della disciplina praticata. Fermo restando il presupposto per cui ogni atleta praticante agonismo nel sistema del CIO (Comitato Olimpico Internazionale) deve essere prima di tutto tesserato per un club, un’associazione o società sportiva la quale, a sua volta, deve essere affiliata a una delle ormai 50 Federazioni sportive nazionali (FSN) è evidente, anche ai non addetti ai lavori, che esiste una profonda differenza con cui sono gestite le attività delle diverse specialità.

Ci sono gli sport che si realizzano prevalentemente nel club e per il club di appartenenza: tutte le spese organizzative sono a suo carico o gravano direttamente sull’atleta (come nel campionato di calcio, basket e volley o nel tennis appunto, nel golf, ecc.).

Per gli atleti di queste discipline l’attività con la Nazionale rappresenta solo una parte dell’impegno e nemmeno certa: solo i fuoriclasse sanno di essere di sicuro convocati in maglia azzurra. Gli altri dipendono tendenzialmente dal rendimento dimostrato nel corso dell’attività di club e, talvolta, anche dalle scelte specifiche dello staff tecnico; e col rischio di essere una riserva o di fare gli allenamenti (le fasi preparatorie) ma poi non passare l’ultima selezione per la gara. Insomma se non sei più troppo giovane e fai un’attività di club intensa, non è facilissimo dedicare il tempo che potresti passare con la famiglia o a costruire qualcosa per il futuro post agonistico per rischiare di stare in panchina, anche se con la maglia azzurra addosso.

E poi ci sono tutti gli altri sport in cui invece l’atleta di alto livello è gestito pressoché esclusivamente dalla Federazione che sostiene tutti i costi, prevede raduni permanenti, la disponibilità degli impianti necessari. Per questi atleti è possibile partecipare all’attività internazionale e ai grandi campionati, solo con la squadra nazionale. Tendenzialmente è così per tutte le discipline che vedono nei Giochi olimpici il massimo dell’ambizione agonistica e per coloro che fanno parte di un gruppo sportivo militare o che praticano specialità con strutture di riferimento rare e costose (vedi velodromi per il ciclismo su pista, piscine con trampolini per i tuffi, pista da bob, slittino e skeleton, ecc.).

Gli atleti di discipline del primo tipo (la cui attività si svolge col club) hanno un calendario fittissimo e l’attività con la squadra nazionale è un “di cui”. La pressione, la necessità di bilanciare gli impegni e contrastare lo sforzo altamente usurante protratto senza soluzione di continuità, possono portare più facilmente al rifiuto di convocazioni in maglia azzurra tanto più se trattasi di competizioni di qualificazione o manifestazioni di secondo piano.

Nel secondo caso, l’attività e l’identità dell’atleta sono esattamente sovrapposte all’impegno con la squadra nazionale: perciò vestire la maglia azzurra non significa rispondere a una convocazione ma rappresenta l’unica possibilità per esistere agonisticamente (poiché dipende organizzativamente e direttamente dalla Federazione).

Non è difficile da comprendere dunque se le quattro pallavoliste poste sotto accusa (Pietrini e Lubian con problemi fisici ancora non del tutto risolti e Bonifacio e Chirichella con alle spalle una stagione di club estremamente intensa) hanno detto no alla partecipazione a un torneo che, sebbene importante, non ha il peso di un campionato mondiale, né europeo e tantomeno del torneo olimpico appena concluso vittoriosamente.

Anche se le squadre nazionali non sono tutte come quella del calcio che dipinge d’azzurro l’Italia intera, certamente per ogni atleta esserne parte è motivo di profonda gratificazione ma è anche fonte di ulteriore responsabilità nei confronti di un pubblico più ampio. E non sempre la motivazione si può aggiornare a comando così come, non sempre, l’impegno trova la forza per essere sostenuto.

D’altronde è qualcosa che sperimenta chiunque: anche nella frammentata quotidianità della vita lavorativa di ognuno, è necessario dover decidere a cosa dare priorità facendo i conti con le proprie energie e il proprio equilibrio personale, famigliare, sociale, economico che, in sintesi, vuol dire fare i conti con la propria salute. Perciò, più che parlare di patriottismo o attaccamento alla bandiera, dovremmo bypassare la retorica di contrapposizione tra libertà individuale e dovere nazionale. La globalizzazione ha reso anche lo sport più dinamico e ha trasformato il concetto di appartenenza, rendendolo più fluido.

Un atleta in maglia azzurra, oggi, non rappresenta solo il proprio Paese ma porta con sé esperienze maturate in club o con tecnici internazionali, attraverso lunghi soggiorni di scambi e confronto all’estero e una visione più ampia del mondo. In questo senso lo sport interpreta un nazionalismo che sa essere aperto e inclusivo: un modo per celebrare il legame con il territorio d’origine senza negare il valore degli altri, una via per valorizzare le differenze senza alimentare le divisioni.

Un confronto in cui ogni atleta, oltre il talento e tutto sé stesso, si porta anche la libertà di costruire ponti tra culture diverse; libertà appunto, quindi anche di dire no se l’impegno supera le proprie motivazioni.

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