A volte è un piccolo fatto che mette in luce l’esistenza di un grande problema. Il piccolo fatto è il seguente. Il presidente del Consiglio europeo, il belga Charles Michel, ha da poco comunicato che si presenterà alle elezioni per il Parlamento europeo del prossimo giugno 2024, anticipando così la fine del suo mandato (novembre 2024). Il grande problema è che l’Unione europea (Ue) non dispone di un potere esecutivo unitario, efficace e responsabile. Tra il fatto e il problema c’è un legame. Se avrete pazienza, spiegherò perché.
Cominciamo da Michel. Il presidente del Consiglio europeo è eletto dai 27 capi di Governo nazionali, che costituiscono quest’ultimo, per 2,5 anni rinnovabili per altri 2,5 anni, ogni 5 anni dopo le elezioni per il Parlamento europeo. Non potendo essere riconfermato, Michel ha deciso di presentarsi alle elezioni di quest’ultimo che si terranno nel giugno 2024.
di Sergio Fabbrini
A volte è un piccolo fatto che mette in luce l’esistenza di un grande problema. Il piccolo fatto è il seguente. Il presidente del Consiglio europeo, il belga Charles Michel, ha da poco comunicato che si presenterà alle elezioni per il Parlamento europeo del prossimo giugno 2024, anticipando così la fine del suo mandato (novembre 2024). Il grande problema è che l’Unione europea (Ue) non dispone di un potere esecutivo unitario, efficace e responsabile. Tra il fatto e il problema c’è un legame. Se avrete pazienza, spiegherò perché.
Cominciamo da Michel. Il presidente del Consiglio europeo è eletto dai 27 capi di Governo nazionali, che costituiscono quest’ultimo, per 2,5 anni rinnovabili per altri 2,5 anni, ogni 5 anni dopo le elezioni per il Parlamento europeo. Non potendo essere riconfermato, Michel ha deciso di presentarsi alle elezioni di quest’ultimo che si terranno nel giugno 2024.
Con Michel che lascia la presidenza del Consiglio europeo e con la presidenza della Commissione europea che verrà assegnata attraverso le negoziazioni successive alle elezioni del prossimo giugno 2024, la presidenza dell’Ue verrà esercitata dal capo di governo del Paese che, a rotazione semestrale, ha la presidenza del Consiglio dei ministri nazionali, il premier belga Alexander De Croo (prima delle elezioni) e quindi il premier ungherese Viktor Orbán (dopo le elezioni). Così, durante la transizione post-elettorale, l’Ue verrà presieduta dal suo più acerrimo rivale che potrà decidere l’agenda dei problemi e le condizioni per affrontarli. È come dare le chiavi della propria casa al ladro che vuole svaligiarla. Come è stato possibile? È stato possibile perché l’Ue è stata fatta a pezzi e bocconi, secondo un approccio funzionalista preoccupato di risolvere un problema ma mai di valutare le conseguenze sistemiche della soluzione individuata.
La presidenza semestrale dell’Ue è un esempio di questo modo di procedere. Sin dall’inizio, fu introdotta per coordinare le attività di ministri e capi di Governo nazionali con lo scopo di far sentire ogni Stato membro partecipe della nuova “costruzione comunitaria”. In contemporanea, a partire dal 1974, i capi di Governo nazionali cominciarono a vedersi informalmente per affrontare le questioni più divisive, così da sciogliere i nodi che potevano ostacolare il processo decisionale comunitario. Le cose, però, cambiarono con l’affermazione elettorale di leader nazionali euroscettici e, quindi, con gli allargamenti che si sono succeduti dal 1973 e che hanno accentuato l’eterogeneità delle leadership nazionali. Molti nuovi Stati membri non disponevano delle capacità organizzative per coordinare il lavoro degli Stati membri, in molti casi non disponevano neppure della cultura amministrativa necessaria per rendere possibile quel coordinamento. Per di più, il passaggio da una presidenza semestrale all’altra aveva introdotto inevitabili discontinuità nell’azione dell’Ue, avendo ogni Paese una sua agenda o un suo interesse da promuovere. Nondimeno, la presidenza semestrale è rimasta nei trattati, con l’argomento che essa avrebbe favorito la socializzazione dei nuovi membri alle pratiche europee, senza mai pensare che sarebbe potuto avvenire il contrario. A Bruxelles, non si toglie ma si aggiunge. Infatti, il Trattato di Lisbona (entrato in vigore il 1° dicembre 2009) avviò la pratica della “presidenza trio” del Consiglio dei ministri (costituita dal Paese in carica, da quello che lo ha preceduto e da quello che seguirà), così da dare una coerenza di almeno 18 mesi all’agenda europea. E formalizzò il Consiglio europeo (dei capi di Governi nazionali), separandolo dal Consiglio dei ministri (coordinato dalla presidenza semestrale), dotandolo di un presidente quasi permanente, così da trasformarlo in un esecutivo collegiale dell’Ue, soprattutto per quanto riguarda la gestione delle politiche che sono di competenza dei Governi nazionali da deliberare all’unanimità. Nel frattempo, la Commissione europea, con la sua presidenza collegata alle elezioni quinquennali del Parlamento europeo, ha continuato
ad agire come l’esecutivo comunitario per le
politiche del Mercato unico.
Siamo così giunti al problema. Chi “governa” l’Ue? Ci sono tre presidenti (del Consiglio europeo, della Commissione europea, del Consiglio dei ministri), di cui non sono chiare le gerarchie né la rispettiva legittimità a parlare a nome dell’Ue. Viktor Orbán può parlare a nome della maggioranza dei 9,71 milioni di ungheresi, non già dei 447 milioni di persone che hanno il passaporto dell’Ue. Ma anche la rappresentanza dell’Ue, da parte degli altri due presidenti, non è chiara. Il sofà di Ankara è ancora lì a ricordarci che l’Ue è senza una voce unitaria e legittima a livello internazionale. Come se non bastasse, funzioni esecutive sono esercitate, nei loro rispettivi campi, anche dal presidente permanente (per 5 anni) del Consiglio dei ministri economici e finanziari dell’Eurozona (Eurogruppo) e dal presidente permanente (per 5 anni) del Consiglio degli affari esteri (l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza). Una panoplia di cariche presidenziali sotto cui si nasconde (appunto) la debolezza decisionale dell’Ue.
Eppure, a Bruxelles, le decisioni da prendere non mancano, con due guerre ai nostri confini, flussi migratori da regolare, una politica industriale europea da inventare (come ha spiegato Mario Draghi ai commissari europei l’altro ieri), un mercato interno da rafforzare (come ha proposto Enrico Letta), una transizione ambientale e tecnologica da gestire anche per i suoi alti costi sociali. Chi guiderà l’autobus europeo per raggiungere quelle mete?