“Dove andate? A prendere il pullman per tornare a casa? Ve l’abbiamo pagato noi? Allora andate affanculo”. In questo siparietto, che trascriviamo un po’ approssimativamente a memoria, fra Beppe Grillo impegnato nel suo comizio-show e alcuni attivisti presenti alla manifestazione nazionale del Movimento 5 stelle contro la precarietà e contro la guerra, c’è tutto il disagio del fondatore per il modello “tradizionale” di mobilitazione adottato da Giuseppe Conte sabato 17 giugno. Una manifestazione che ha rappresentato un tentativo, in buona parte riuscito, di darsi un profilo politico di opposizione molto netto (l’ex presidente del Consiglio ha usato toni molto duri nei confronti di Giorgia Meloni, pur non essendo il “comiziaccio” tradizionale la specialità della casa). E che ha dato il via, come effetto secondario, alla prima vera resa dei conti interna al Partito democratico, dopo che la segretaria Elly Schlein ha fatto la scelta di presentarsi alla partenza del corteo “per un saluto” con Conte, pur senza prendere parte alla manifestazione né aderire come partito alla sua piattaforma, con una sorta di involontaria citazione del Nanni Moretti di Ecce Bombo (“Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”).
La manifestazione
Lontani i tempi dei raduni oceanici e quasi del tutto spontanei, quando il leader carismatico delle origini convocava il popolo con le sue campagne sul web, il M5S, prendendosi anche un bel rischio in una fase di bassa marea politica per le opposizioni, ha scelto il corteo nella capitale, come hanno fatto negli ultimi decenni quasi esclusivamente le vecchie organizzazioni della sinistra tradizionale (o radicale). Dimostrando anche di conoscere a menadito gli escamotage necessari per gonfiare simbolicamente il petto: tantissime bandiere, quasi una a testa, raduno iniziale subito compresso in una via laterale fra piazza della Repubblica e Termini, approdo finale in una piazza (largo Corrado Ricci, all’imbocco dei Fori imperiali) che è, più che altro, la fine di una via molto larga, striscione di testa rallentato per consentire il lento fluire dei manifestanti, che dà l’idea di una grande folla. Anche questa manifestazione non è sfuggita alla consueta guerra di cifre: autorevoli giornalisti con il vizietto dello spirito militante si sono spinti a stimare in sole cinquemila le persone che hanno sfilato a Roma nel primo sabato di caldo estivo vero, gli organizzatori hanno sparato una valutazione decisamente ottimistica di quindici-ventimila; la verità sta probabilmente nel mezzo, e ha una sua importanza, perché non è affatto un risultato da poco portare in piazza diecimila persone o poco meno per un non-partito che a livello territoriale di fatto non esiste, come dimostrano i ripetuti flop in occasione delle tornate elettorali amministrative. Di qualche rilievo anche la capacità di aggregare realtà sociali e di movimento, e qualche figura nota dell’arcipelago ambientalista e di sinistra: politici a parte, la più significativa quella dell’attore e attivista pacifista Moni Ovadia, che ha offerto una visione decisamente radicale delle responsabilità occidentali nell’escalation della guerra in Ucraina – non proprio in linea con la posizione più cauta di Conte che non ha mai rinnegato il sostegno all’Ucraina, pur chiedendo, ormai da oltre un anno, una “svolta diplomatica” e lo stop alle forniture militari. E non solo: Ovadia, in linea con il suo impegno storico sul fronte dei diritti umani dei palestinesi, ha sferrato un duro attacco alle politiche dei governi israeliani: altro tema tabù non solo per le destre ma per larga parte del cosiddetto centrosinistra.
Il caso passamontagna
Merita solo un cenno, trattandosi di un dibattito surreale, la polemica innescata dalla tirata in piazza di Grillo sulle “brigate di cittadinanza” che dovrebbero riparare marciapiedi e buche stradali indossando il passamontagna, commento al caso del pensionato multato per una iniziativa simile. È pur vero che molta parte dell’informazione e del mondo politico nazionale si è appassionata al caso: c’è chi addirittura ha evocato gli anni di piombo, con toni seriosi, nelle aule parlamentari. Ma d’altro canto, la commistione fra politica e cabaret non è esclusiva del comico genovese che ha fondato il M5S, anche se ne porta sulle spalle una fetta importante di responsabilità. Grillo resta Grillo, le sue uscite pubbliche, questa probabilmente dovuta, dal momento che è sotto contratto come “comunicatore” a vario titolo del Movimento, sono inevitabilmente destinate ad andare sopra le righe, perfino poco in questa occasione, per quel che può valere la memoria storica di chi segue per lavoro le sue vicende da molti anni.
Conte-Grillo pomo della discordia nel Pd
L’effetto secondario, dunque: nel dibattito pubblico, e poi nella riunione della direzione nazionale del Pd, è stata proprio la timida apparizione di Schlein alla manifestazione del M5S ad allargare la faglia che evidentemente è sempre aperta fra i sedicenti “riformisti” (una quota corposa dei quali figlia della tradizione democristiana) e il nuovo corso che la segretaria intende rappresentare dopo il successo nelle primarie: “Facciamo una discussione leale, franca, profonda per tirare insieme una linea. Poi però lavoriamo tutti insieme in modo corale”, è stato il suo appello. “Io – ha rivendicato – credo in un gioco di squadra, in una leadership collettiva”, ma “nella chiarezza della linea politica del congresso”. Che sarebbe poi la sua, quella risultata vincente, ma che si trova già sotto il bombardamento polemico esterno di Matteo Renzi e dei suoi; oltre a subire qualche ingenerosa ma non sorprendente polemica, come quella di Alessio D’Amato, candidato perdente alle regionali del Lazio, che ha annunciato l’uscita dal Consiglio nazionale ma per ora non dal partito, e forse fiuta l’approdo a nuovi lidi politici, non essendo peraltro nuovo alle fatiche della migrazione.
Indicativa la secca replica di Lorenzo Guerini, punto di riferimento degli ex renziani, che ha accusato la leader di essere “inutilmente polemica” e le ha ricordato perché i 5 Stelle non sono troppo frequentabili per il Pd: “L’Ucraina è dirimente”. Non meno interessante la posizione espressa da Gianni Cuperlo, antico navigatore di quei marosi, quasi come un avvertimento: “Segretaria, il congresso è finito e tu hai il compito di guidare questa comunità” e attorno alla spinta innovativa che ha determinato l’esito congressuale “hai bisogno – direi il dovere – di portare tutto il partito a condividere la lotta, il linguaggio, il traguardo. Questo è il compito di chi guida”.
Insomma, se il Pd ha adottato, in passato, con qualche entusiasmo, l’uomo solo al comando, è già abbastanza chiaro che non accadrà lo stesso con la donna sola al comando. E che la prospettiva di un riavvicinamento permanente al M5S resta il rischio maggiore per buona parte del gruppo dirigente che non fa riferimento alla segretaria. La quale non gode nemmeno della “luna di miele” che in genere agevola il compito dei leader almeno all’inizio del loro mandato. Al punto che la direzione non ha approvato nemmeno la sua relazione ma solo “un documento di sintesi”, che contiene i punti politici principali che ha proposto. Dopo il tonfo alle amministrative, Schlein aveva chiesto di evitare uno “psicodramma”. La sensazione è che, a meno di sorprese, sul prossimo voto alle regionali in Molise – dove l’asse col M5S è quello decisivo dato che il candidato presidente è il sindaco M5S di Campobasso, Roberto Gravina – Schlein potrebbe essere costretta a rinnovare l’appello.