Per non dimenticare chi siamo, cosa abbiamo vissuto e le prove che la Repubblica ha dovuto attraversare per rimanere se stessa, dopo la memoria della strage di Bologna del 2 agosto 1980, con gli 85 morti e più di 200 feriti, arriva il cinquantesimo anniversario della bomba esplosa il 4 agosto 1974 sul quinto vagone del treno 1486 Italicus in corsa verso Monaco di Baviera: dodici vittime e un volantino firmato Ordine Nero: “Abbiamo voluto dimostrare alla nazione che siamo in grado di mettere le bombe dove vogliamo, in qualsiasi ora, in qualsiasi luogo, come ci pare.
Vi diamo appuntamento per l’autunno; seppelliremo la democrazia sotto una montagna di morti”. Ieri il presidente della Repubblica Mattarella, sempre più custode solitario di una memoria nazionale insidiata, ha voluto ricordare non solo l’attentato, ma la sua natura e il suo significato, denunciando «una strategia terroristica che mirava a destabilizzare la Repubblica»: «Nella catena sanguinosa della stagione stragista dell’estrema destra italiana, di cui la strage dell’Italicus è parte significativa, emerge la matrice neofascista, come sottolineato dalla Cassazione e dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia P2, pur se i procedimenti giudiziari non hanno portato all’espressa condanna di responsabili».
Non è dunque l’ossessione degli antifascisti — come sostiene l’ultimo giustificazionismo — che incalza Giorgia Meloni per conoscere il suo giudizio storico sui vent’anni di dittatura, sulla stagione del post-neo-fascismo e sui suoi intrecci coi gruppi criminali organizzati dell’estrema destra che volevano realizzare nelle stragi il progetto piduista di involuzione autoritaria dell’Italia: è semplicemente il calendario civile del Paese, che ad ogni scadenza di una vicenda nazionale accidentata crea un appuntamento ineludibile tra ilgoverno e la storia, tra la cronaca e le istituzioni, costringendo chi guida l’Italia a prendere posizione, rievocando l’accaduto con l’obbligo morale di interpretarlo e di giudicarlo. La destra lo fa, ogni volta accompagnando la sua condanna di eventi mostruosi (e ci mancherebbe altro) con una riserva, un distinguo, una perplessità, nascondendosi dietro le sentenze della magistratura che chiamano in causa il neofascismo, rifiutandosi sempre di sciogliere in proprio il nodo dell’ambiguità.
Questa riserva nella lettura condivisa della stagione stragista e nella deriva terroristica delle organizzazioni di estrema destra consente a Giorgia Meloni di tenere aperto uno spiraglio al grande dubbio: come se la premier dicesse a tutto il suo mondo che deve prendere atto della verità ufficiale accertata dai tribunali, ma non rinuncia a coltivare in quello spiraglio l’ipotesi di un ribaltamento della storia, di una rilettura ideologica della vicenda nazionale, o almeno di una sterilizzazione politica e culturale della natura della Repubblica.
Proprio questo è il vero obiettivo della destra estrema che ci governa: cancellare l’imprinting che la Resistenza, con la lotta armata al fascismo e al nazismo, ha dato alla democrazia italiana riconquistata, alla Costituzione che la traduce in principi, regole e valori, alle istituzioni che coerentemente ne derivano.
Una Repubblica disossata, senza più una spina dorsale costruita nella lotta per il recupero della libertà, neutralizzata negli ideali, liberata dal mito fondatore della democrazia che spodesta la dittatura e recupera il concetto di Patria nello spirito della Costituzione.
Come gli affluenti del grande fiume della Nazione, a quel punto tutte le culture politiche sono riconosciute, legittimate e ammesse a pari titolo nel concerto politico-istituzionale dellanuova Italia, compresa quella post-neo-fascista. Il risultato è una Repubblica ufficialmente anonima, formalmente indefinita, in realtà concepita, disegnata e realizzata dalla destra come esito finale della sfida con la sinistra per l’egemonia culturale. Altro che Rai: qui è in gioco l’intero palinsesto valoriale del Paese.
Alla sinistra verrebbe sottratta la rendita di posizione dell’antifascismo come fondamento repubblicano. Alla destra verrebbe amnistiato il peccato originale del fascismo, nuova cultura se non costituente certo costitutiva della vera Seconda Repubblica italiana. Con in più la suggestione per Meloni di non cifrare soltanto una stagione di governo, ma addirittura l’impresa titanica di un sovvertimento culturale con proiezioni istituzionali, annullando una storia del Paese per iniziarne un’altra, rimanendo fedele non solo alla sua avventura e alla sua natura, ma anche al suo spirito antisistema.
Un sistema ribaltato da Palazzo Chigi, nella classica ribellione delle élite(se così si può dire nell’anomalia del caso italiano) mascherate da
underdog, uno degli esiti di scuola della deriva populista del Paese.
La posta in gioco è la più alta, vale a dire la natura della democrazia, a cui a quel punto bisognerà pur dare un nome, tra il modello liberal-democratico a destra in disuso, la pratica dispotica di Putin, le tentazioni neo-autoritarie dei leader sovranisti e “patrioti”, la “verticale del potere” degli autocrati.
Un giorno Giorgia Meloni dovrà pur svelare la sua idea di democrazia, che resta fino ad oggi misteriosa. E proprio per questo non si può non vedere che ormai Sergio Mattarella, con la sua pedagogia costituzionale, non è più soltanto un punto di riferimento del Paese: ma un punto democratico di contraddizione.