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I critici (non molti in fondo) sono stati categorici: il nuovo altare progettato dal designer francese Guillaume Bardet (1971) per la «nuova» Notre-Dame, la cattedrale di Parigi appena riaperta al culto dopo il disastroso incendio del 15 aprile 2019, altro non è che «un’enorme ciotola in bronzo di un pauperista radical-chic che ricorda una sala da pranzo eccessivamente contemporanea con calice, patena, pisside, ostensorio, trono, seggi e ambone che sembrano celebrare una strana collezione Ikea degli anni Settanta». Qualcosa che, sempre secondo i critici, ha di fatto azzerato la sacralità del luogo e in qualche modo anche la storia, visto che proprio davanti a quell’altare nel 1804 Napoleone Bonaparte si era autoincoronato imperatore dei francesi. Insomma le intenzioni di Bardet il minimalista («Volevo forme naturali per un’opera immutabile») avrebbero cancellato la religiosità e la memoria di un altare — rimasto intatto dalla catastrofe del 2019 e che quello di Bardet ha sostituito — che in origine doveva essere simile a quello realizzato da Gian Lorenzo Bernini per la Basilica di San Pietro e Roma.
Vecchio e nuovo, dunque, si confrontano a Notre-Dame nella ri-definizione di un’estetica capace di ridare energia e vigore all’arte sacra: il nuovo reliquiario della Corona di Spine è, ad esempio, una sfera in colore blu opaco, «concepita per assorbire la luce e trasformarla in una sorta di cornice luminosa dello stesso reliquiario realizzato in cedro, legno, oro».
Operazione non certo facile e nemmeno tanto esente da polemiche se si considerano quelle scatenate dal nuovo altare realizzato nel 2011 da Giuliano Vangi (1931-2024, grande maestro del realismo scultoreo) per il Duomo di Pisa (definito da Vittorio Sgarbi «più osceno delle mutande»). O più di recente da quello progettato nel 2018 da Claudio Parmiggiani (1943, tra i protagonisti dell’avanguardia artistica internazionale) per la basilica di Santa Maria Assunta a Gallarate, in provincia di Varese, bollato come «macabro spunto all’Isis» per futuri attentati o più semplicemente «satanico» con tutte le sue 120 teste mozzate che nelle intenzioni dell’artista volevano al contrario riprodurre le teste scolpite da Fidia, Michelangelo, Canova (all’epoca monsignor Ivano Valagussa, vicario episcopale dell’arcivescovo di Milano, aveva replicato: «Venite di persona, osservate con attenzione, cambierete idea, perché all’arte serve tempo»).
La messa è finita recitava il titolo del film-cult (1985) di Nanni Moretti in cui anche il prete protagonista (lo stesso Moretti) passava dal tradizionale altare della chiesa di Santa Candida sull’isola di Ventotene a quello spiccatamente novecentista (e modernista) della chiesa di Santa Maria Mediatrice a Roma progettata da Giovanni Muzio tra il 1942 e il 1950.
Nel 2024 la messa è dunque ricominciata, ma su «altri» altari destinati a reinterpretare la sacralità in modo più rarefatto, essenziale e in qualche modo diverso come era successo, ad esempio, a Keith Haring (1958-1990) che nel 1990 termina, pochi giorni prima della morte, un incredibile altare in bronzo con la Vita di Cristo oggi conservato al Denver Art Museum. O come, più di recente, è successo a Jasleen Kaur (1986), fresca vincitrice con la mostra Alter Altar (alla Tramway Gallery di Glasgow) del Turner Prize 2024: un corpus di opere scultoree e sonore che reimmaginano tradizioni e miti (The Chorus del 2023 è un lungo tavolo ricoperto di seta simile a un altare su cui spiccano grandi mani che reggono campanelle dorate presenti nei riti di molte religioni).
La Sankt Hedwigs-Kathedrale di Berlino è uno dei luoghi di culto cattolici più importanti della Germania, un edificio che fino alla chiusura per ristrutturazione nel 2018 attirava più di 200 mila fedeli e visitatori. Dopo una preview nel 2023, lo scorso 24 novembre la cattedrale è stata riaperta nel nuovo allestimento (firmato dallo studio Sichau&Walter) con un nuovo altare maggiore — una mezza sfera da due tonnellate e mezzo di peso — realizzato con un impasto di pietre donate dai fedeli, sabbia, ghiaia e cemento bianco. Leo Zogmayer (1949) l’artista austriaco che ha progettato i nuovi interni, ha spiegato che l’altare — che ripete capovolta la cupola della chiesa — «vuole fluttuare nello spazio, trasmettendo allo stesso tempo una presenza massiccia». La storia delle pietre utilizzate da Zogmayer è intrigante: nel 2022 i fedeli dell’arcidiocesi di Berlino erano stati invitati a portare una piccola pietra da casa in occasione delle celebrazioni per il Corpus Domini e a lasciarla sui gradini di fronte alla chiesa. Zogmayer ha fuso i ciottoli utilizzando il conglomerato ottenuto per realizzare il nuovo altare e il pulpito. L’arcivescovo Heiner Koch ha così spiegato l’idea delle lebende Steine, le «Pietre vive», alla base del nuovo altare: «Le piccole pietre sono pensate per riflettere la diversità delle persone; il conglomerato è un segno che i fedeli appartengono alla medesima comunità, anche se vivono in luoghi diversi».
Gli altari della chiesa di San Luca Evangelista a Roma (1955-1958) di Riccardo Morandi (1902-1989), della Cathedral of Saint Mary of the Assumption a San Francisco (1967-1971) di Pierluigi Nervi (1891-1979), della chiesa di Partanna, in provincia di Trapani, progettata nel 1972 da Maurizio Sacripanti (1916-1996) appaiono così come frammenti anticipatori di quel discorso di rimodellamento/riammodernamento degli edifici di culto che avrebbe portato alla consacrazione a Roma nel 2003 della chiesa Dives in Misericordia di Richard Meier (1934) in cui l’altare (al pari dell’ambone e del fonte battesimale) erano stati realizzati in blocchi lapidei di travertino romano a disegno geometrico, privi di qualsiasi decoro.
Il rimodellamento/riammodernamento dell’altare si inserisce dunque inevitabilmente in un più generale processo di trasformazione dei luoghi di culto (altari logicamente compresi) che non riguarda solo cattedrali e chiese della grandi capitali. A marzo, ad esempio, è stato presentato il nuovo altare della chiesa dei Santi Protaso e Gervaso a Gorgonzola, Milano, chiesa in stile neoclassico costruita tra il 1806 e il 1820 dall’architetto ticinese Simone Cantoni (1739-1818) che aveva firmato anche l’altare originario, sostituito poi con uno «provvisorio» negli anni Settanta. Il nuovo altare in marmo di Carrara (realizzato dal Centro Ave, sotto la direzione artistica dell’architetto Fabio Mastroberardino), ispirato al Vangelo di Matteo «Ed ecco, il velo del tempio si squarciò in due» (27,51), ha forme squadrate e nette con il «movimento scultoreo» del frontale che definisce, con i tagli che sembrano muovere un lembo di tessuto, uno squarcio a forma di croce.
A dicembre, nuovo altare anche per la cattedrale di San Cetteo a Pescara: «Semplice, di pietra, piantato a terra», lo definisce il progettista, l’architetto Alberto Cicerone. Un altare in marmo bianco caratterizzato, nella parte anteriore, da una croce dorata fiorita, «che rappresenta il sacrificio ma anche la gioia della Resurrezione».
La chiesa di San Giovanni Battista a Mogno (1996), la cappella di Santa Maria degli Angeli sul Monte Tamaro (1992-1996), quella di San Francesco a Sorengo (2013-2017), tutte realizzate in Svizzera: Mario Botta (1943) si è più volte confrontato con il sacro. A giugno risale la consacrazione (dopo un percorso lungo e tribolato) della chiesa di San Rocco a Sambuceto, in provincia di Chieti, dove «l’altare — spiega l’architetto — per la prima volta nella cultura italiana non è una mensa, ma un’ara del sacrificio». Un altare collocato sotto un cielo stellato che a sua volta rende omaggio a Giotto e alla Cappella degli Scrovegni. Un altare, quello di Sambuceto, che guarda a Notre-Dame du Haut, nel sud della Francia, meraviglioso esempio di architettura religiosa creato tra il 1950 e il 1955 da Le Corbusier (1887-1965) con due altari, uno interno e l’altro esterno, ancora oggi capaci di parlare all’uomo con la rigorosa essenzialità delle loro forme.
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