La corsa agli Oscar richiede una combustione di forze (umane ed economiche) ingenti, una corsa serrata con i ritmi frenetici dell’industria hollywoodiana. Delpero l’ha percorsa con tutta la devozione possibile e le difficoltà legate a gestire una figlia di quasi due anni, Juana Caterina, e una doppia residenza tra l’Italia e Buenos Aires, dove vive con il marito, l’attore argentino Santiago Fondevila Sancet. A Venezia, con
il Leone in mano, aveva voluto sottolineare l’assurda difficoltà di dover combattere con il ruolo di madre e un lavoro impegnativo. «Mio marito e io abbiamo fatto in modo che nostra figlia avesse un fortino affettivo e fosse abituata a una grande flessibilità, ma rinnovo l’appello che ho fatto a Venezia per cercare insieme una strada perché la genitorialità smetta di essere una questione privata. In questi anni mi sono confrontata con molti colleghi e colleghe e ho capito che la professione costringe le donne a scegliere tra priorità. Ovviamente dilemmi che non ho sentito nei miei compagni di sesso maschile. Queste problematiche devono diventare collettive, senza ricadere esclusivamente sulle spalle delle donne. In certi ambienti di lavoro il sesso esclude in maniera diretta o indiretta. E questo è molto ingiusto. Ho amiche direttrici della fotografia in Argentina che con la maternità sono uscite dal mercato e hanno fatto una fatica immensa per rientrare. I maschi sono stati a casa due giorni, hanno fatto le foto, le hanno messe sui social e il terzo giorno erano sul set.
Se condividiamo gli oneri possiamo diventare una società più felice. Anche perché, quando stiliamo le classifiche sulla denatalità, parliamo di società e non di donne, quindi qualcosa non torna. Il primo passo devono ancora farlo le donne per prendere coscienza della diseguaglianza, perché stiamo parlando di un’esclusione secolare, programmatica, naturalizzata in maniera profondissima. Il secondo è lottare per combattere il pregiudizio. C’è ormai una certa stanchezza, anche in me, a parlare di diseguaglianza. Io stessa non vedo l’ora, come regista, di occupare le mie interviste discutendo delle scelte difficili che ho fatto sulla sceneggiatura, dell’impegno che ho messo nel lavorare sulla fotografia, di come mi sono scervellata sul casting, senza preoccuparmi di questioni di genere. E capisco che nel mondo maschile qualcuno possa sentirsi in qualche modo sotto attacco. Ma ci sono dei passaggi obbligati e noi siamo in ritardo».
Guardando la filmografia di Delpero, 49 anni, al suo secondo lungometraggio con Vermiglio, si capisce che anche il suo cammino professionale ha avuto degli inciampi, forse per questioni di genere e forse no. Dopo aver studiato lettere a Bologna, poi a Parigi-Sorbona e drammaturgia a Buenos Aires, comincia la sua carriera da cineasta di documentari, corti e mediometraggi. Il primo lungometraggio, Maternal, arriva nel 2019 e parla di ragazze che “subiscono” la propria maternità, assieme ad altre donne, le suore con cui vivono, che non “possono permettersela”.
La maternità è un tema centrale di questo film, come si intuisce dal titolo e come lo è anche in Vermiglio per una delle protagoniste, Lucia (Martina Scrinzi).
«Mi rendo conto che nel mio lavoro ci sono dei fili rossi e dei temi che tornano come dei fantasmi dalle cantine, anche quando avevo deciso di non scriverne. Me ne accorgo a posteriori, quando me lo fanno notare, o quando faccio dei bilanci. Il mio modo di scrivere attinge molto all’inconscio, perché credo che, se privilegi la testa, la scrittura diventa stereotipata. Invece, se non si programma nulla, si pesca nelle zone sopite e io mi lascio sorprendere da questioni che arrivano dal profondo. Così noto che c’è sempre nei miei lavori una maternità complessa, che si prende in carico le grandi contraddizioni che questa condizione mette in moto. La protagonista di Maternal lotta per appropriarsi della sua genitorialità e così Lucia di Vermiglio si trova a dover affrontare con la gravidanza un mostro sociale e morale. Sceglierà una via per non rimanerne vittima attraverso l’emancipazione, ma anche di maggior solitudine. Nasce come ragazza di paese e compie gesti pionieristici, diventando una donna dei nostri tempi, che lavora.
Anche Nadea e Sveta (2012) racconta di una madre: la protagonista ha dovuto lasciare
la sua bambina di tre anni in Moldavia. Io ho seguito il suo viaggio di ritorno a casa, quando la figlia aveva ormai compiuto sei anni. Nel frattempo, aveva delegato la sua maternità alla nonna e per riappropriarsene ha combattuto molte difficoltà.
Ho attraversato questo tema con l’ammirazione che nutro per le epopee sommerse, che vengono spesso vissute con una dignità silenziosa e per me commovente da classi sociali che non gridano, che convivono con i limiti dettati dalla loro posizione socio-economica imposta dalle origini. La maternità è una rivoluzione psicofisica, che spesso è stata raccontata con una retorica felice, senza rendersi conto invece dello sconvolgimento che comporta. Sicuramente a me hanno colpito la difficoltà
e la complessità della maternità di mia madre. Erano anni in cui gli uomini uscivano la mattina e tornavano la sera. Sono certa di aver assorbito molto la sua solitudine».
Nel cinema di Delpero c’è sempre qualcuno che deve lasciare una strada per prenderne un’altra nel mondo. «Io stessa mi sono sempre mossa tanto. E forse aver scelto l’Argentina come patria putativa non è casuale: è la terra di emigrazione e della nostalgia per eccellenza, una sensazione con cui sono cresciuta». Vermiglio nella Val di Sole, dove il film è stato girato e ambientato, è il paese di origine del padre di Maura Delpero. «Allora il piccolo spostamento di mio padre dalla Val di Sole a Bolzano era grande. Abbiamo ancora la casa in pietra del nonno in paese, con un piano per ogni figlio. Ci avrei addirittura girato il film se non fosse stata in parte ristrutturata. Però in fase di scrittura ho sempre pensato a girarlo in quella casa». Le mura, le stanze, il paesaggio di Vermiglio sono protagonisti del film, tanto quanto lo sono gli umani: «Per scrivere questa sceneggiatura ho avuto riferimenti soprattutto pittorici, più legati alle arti visive che alla cinematografia. Per esempio, i quadri di Segantini che sono stati un parametro anche per la colorimetria. A dispetto del titolo, questo è un film celeste, perché è talmente vicino al cielo… Poi in inverno con la neve diventa bianco. Quindi abbiamo deciso di lavorare su un azzurro con una base quasi neutra, da cui risaltassero solo alcuni colori primari.
Io scrivo in maniera molto visiva. È stato anche uno dei primi commenti che ha fatto il direttore della fotografia, Michail Kri?man, quando ha letto la sceneggiatura. Forse Kri?man avrebbe lavorato di più con la camera in movimento, però io gli ho sempre ricordato che il nostro riferimento era pittorico. Amo molto le immagini sintetiche, il linguaggio molto ellittico. Ho insistito su questo tipo di estetica con una Natura indifferente, anche un po’ leopardiana, lontana da quella da cartolina.
Poi ho voluto che ci fossero delle boe visive, cui lo spettatore potesse appigliarsi: il rivedere i letti, la chiesa, la casa. La narrazione doveva tornare sempre negli stessi luoghi, ma cambiando gli eventi».
Nel paese di Vermiglio la prima proiezione del film è stata in piazza in un clima di festa con tanto di banda: sul grande schermo si è ritrovato metà paese.
«In una prima fase abbiamo aperto un casting in valle. Ma era un film d’epoca e montanaro con un codice geografico e temporale molto specifico che doveva riflettersi sulle fisionomie. Così ho capito che dovevo spendere il mio tempo per andare a cercare personalmente gli attori nell’ultima stalla e nell’ultimo bar, proprio perché dovevano essere persone che non si sarebbero mai presentate a fare un casting. Mi sono trovata nelle osterie a condividere molte grappe fino a quando sono rimasta incinta.
La gravidanza mi ha tolto una fonte di comunicazione preziosissima», ride.
La prossima bottiglia di grappa è in serbo per martedì. Dita incrociate.