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10 Febbraio 2025
La sfida dell’Europa sull’AI: regole più semplici e investimenti
10 Febbraio 2025Un Pd pigro e afono: coltiva ideali ma non vede la realtà ed è quindi incapace di produrre politiche adeguate per affrontare disagi e insicurezze. Denatalità e invecchiamento, istruzione di massa, declino dell’Europa e immigrazione: quando i nodi vengono al pettine. Indagine sul moralismo di sinistra
A chi ogni tanto ci accusa di non avere una visione io rispondo: certo che ce l’abbiamo, anche bella forte… è quella che tiene inscindibilmente insieme la giustizia sociale, la giustizia climatica, il lavoro dignitoso, l’innovazione, i diritti delle persone. Magari a qualcuno non piace, ma ce l’abbiamo”. Così, secondo Repubblica, Elly Schlein ha definito le fondamenta su cui riposa il programma di un Pd al quale dovrebbe essere quindi assai facile – partendo da ideali tanto ragionevoli e generosi – assicurarsi il sostegno della maggioranza della popolazione. Chi, tranne pochi malvagi e gli ingenui da loro ingannati, si opporrebbe a giustizia, dignità, innovazione e diritti? Ma se è vero che Schlein è riuscita a garantire la sopravvivenza del Pd, non sembra che questa visione riesca ad allargare un consenso fattosi magro e ricresciuto solo a spese dell’area che una volta un Pd ben più grande rappresentava direttamente.
Il problema è che quella visione vale sempre e per qualunque paese. Essa è insomma l’espressione di lodevoli convinzioni e preferenze morali, non il frutto dell’analisi realistica della situazione concreta in cui oggi italiani ed europei si trovano a vivere. In quanto tale è incapace di produrre politiche per affrontare insicurezze, disagi e insoddisfazioni reali le cui cause non sono indagate ma piuttosto implicitamente imputate a malvagità e stupidità. Non si sta bene, insomma, perché c’è chi ci vuol far stare male o non capisce, e il rimedio non può quindi che stare nell’introduzione di norme che, se approvate, dovrebbero per forza avere anche un carattere repressivo, e nel moltiplicarsi di risorse che tutti sanno mancare e sentono in via di restringimento, a meno di fantastici – e certo auspicabili – progressi nelle nostre conoscenze.
La visione e la “politica” del Pd risultano quindi poco credibili e non trovano per questo grande sostegno, e il gruppo dirigente del partito, malgrado il suo impegno, appare afono: chi parla a tutti e per tutti i tempi, esprimendo esigenze morali, non riesce infatti a parlare a nessuno in particolare, ed è condannato a diventare l’espressione di gruppi beneducati e benevolenti, autoisolati nella propria bolla, e questo nel migliore dei casi, ché la realtà trova sempre il modo di “penetrare” moralismo e moralisti.
E’ auspicabile che un giorno il Pd trovi il tempo e la voglia di riflettere su come e perché un gruppo dirigente ad esso esterno gli sia stato imposto da una parte di quello, interno, che lo aveva portato alla sconfitta ed è riuscito così a non far fronte alle sue responsabilità. Ma si tratta di cosa tutto sommato secondaria.
Molto più interessante sarebbe indagare le ragioni che hanno portato la sinistra in generale a lasciare la politica per il moralismo, con tutte le conseguenze che ne sono derivate. In Italia (ma il fenomeno è proprio dell’intero “mondo bianco”) si dovrebbe partire da una riflessione su Craxi, Berliguer, Berlusconi e la sinistra democristiana, per cui i tempi sono maturi. Ma dietro quel passaggio vi sono tre eventi “epocali”. Il primo è il tracollo del comunismo, che ha trascinato con sé il socialismo e con esso la visione a fondamento delle politiche operative della sinistra, un tracollo che Craxi non fu capace di vedere e cui Berlinguer rispose sostituendola con moralismo e perbenismo. Il secondo è la contemporanea affermazione dell’istruzione, anche superiore, di massa, un fenomeno della seconda metà del XX secolo che ha prodotto enormi benefici ma anche fornito a quel perbenismo e ai buoni sentimenti una base molto più estesa di quella del passato. Il terzo è costituito dell’ingannevole, ma forte e quindi prolungata sensazione che, malgrado la crisi degli anni Settanta, seguendo politiche opportune si potesse tornare a tempi migliori e che quindi le cose avrebbero ripreso ad andar bene.
Andrea Graziosi, nato a Roma nel 1954, insegna Storia contemporanea all’Università di Napoli Federico II, è uno dei maggiori esperti di storia sovietica, ucraina e dell’Europa orientale. Collabora col Foglio. Ultimo volume pubblicato, “Il ritorno della razza” (il Mulino, 2025).
Chi parla a tutti e per tutti i tempi, esprimendo esigenze morali, non riesce a parlare a nessuno in particolare, ed è condannato a diventare l’espressione di gruppi beneducati, autoisolati nella propria bolla
Sarebbe interessante indagare le ragioni che hanno portato la sinistra in generale a lasciare la politica per il moralismo. In Italia si dovrebbe partire da una riflessione su
Craxi, Berliguer, Berlusconi e la sinistra dc.
Sinistra nella bolla del moralismo
Perché invece la sfida più importante oggi è cogliere i tratti essenziali della nuova epoca in cui viviamo, vedere i problemi che ne scaturiscono, trovare il modo più intelligente per affrontarli
Ciò è stato vero specie in un’Europa che ha potuto rinviare scelte dolorose aumentando il debito pubblico ma anche con l’allargamento della Comunità economica prima (e dell’Unione poi) in un continente cui il collasso dei regimi socialisti sembrava promettere la pace perpetua. Forse anche per questo ci si rifiutò di ragionare sulla crisi jugoslava e di interrogarsi su cosa volesse dire – dopo il 1991 e il progressivo allontanamento, anche “etno-culturale”, degli Stati Uniti dall’Europa – continuare ad affidare a Washigton la difesa del continente.
Per alcuni decenni, quindi, la riduzione della politica alla morale sembrò funzionare. La sinistra europea ha così a lungo rinviato un aggiornamento della sua analisi della realtà e delle sue soluzioni per essa, aggiornamento che una destra sconfitta negli anni Sessanta e Settanta del Novecento fu invece obbligata a impostare. Intanto però la storia camminava veloce, seguendo percorsi imprevedibili: la crisi del nuovo Occidente nato nel 1945, annunciata dal crollo del sistema di Bretton Woods, dal collasso della natalità (scesa in quasi tutti i paesi europei dal 1972 sotto la soglia che garantisce la riproduzione) e dall’invecchiamento della popolazione, dalla fine della decolonizzazione e dalla crisi del 1973, dalle riforme economiche di Deng Xiaoping e dal trionfo di Khomeini, apriva le porte – specie in Europa – a un’epoca di aspettative decrescenti. Essa è stata dapprima affrontata col debito (uno strumento cui ci si continua irrazionalmente ad affidare, come ci ricordano Superbonus e Pnrr), ma anche e più intelligentemente con l’allargamento della comunità e l’aumento dell’istruzione, capaci di produrre miglioramenti strutturali. E’ invece e purtroppo mancato un impegno della portata necessaria a ridare alla scienza europea il suo lustro, mentre ideologie apocalittiche danneggiavano la nostra industria e le nostre capacità energetiche, già messe legittimamente in difficoltà dalla concorrenza dei paesi emergenti.
La sfida di gran lunga più importante e interessante oggi di fronte a una sinistra italiana e europea (ma anche nordamericana) chiamata a fare il suo aggiornamento è quindi quella di cogliere i tratti essenziali della nuova epoca in cui viviamo; vedere i problemi che da essi scaturiscono; trovare il modo più intelligente per affrontarli, e quello più convincente per spiegarne il motivo. Il problema è come minimizzare danni e pericoli, salvaguardando libertà e benessere individuali oggi messi in causa non solo e non tanto da politiche e chiusure sbagliate, talvolta stupide e persino crudeli, ma soprattutto da un mondo che non è più quello in crescita del passato.
Non è possibile fare qui un’analisi dei principali di quei tratti e di quei problemi, ma la loro evidenza ne permette una breve rassegna. Essi derivano in primo luogo dalle dinamiche della popolazione, da una denatalità che dura ormai da 50 anni e dal velocissimo processo di invecchiamento di italiani e europei. Nel nostro paese il tasso di natalità è passato dal 2,43 del 1970 all’1,21 del 2024 (ricordiamo che 2,2 è quello necessario al mantenimento della popolazione esistente), mentre l’età media è salita da circa 34,5 a 46,6 anni. Vale la pena di sottolineare che entrambi i fenomeni, che hanno conseguenze pesanti e negative su servizi, produttività, sistema sanitario, pensioni, condizioni di vita ecc. sono stati causati da cambiamenti positivi: l’aumentato benessere collettivo e la maggiore istruzione delle donne il primo, e le conquiste mediche il secondo, cambiamenti di cui non si può certo auspicare l’azzeramento, sicché siamo alle prese con un problema di difficilissima ma indispensabile soluzione, di cui per fortuna si comincia almeno a prendere coscienza dopo decenni di rimozione.
A complicare le cose, psicologicamente e politicamente, c’è il fatto che questa crisi demografica è venuta dopo una crescita rapidissima che ha spinto per due secoli anche spontanemente e dal basso verso un’omogeneizzazione etno-culturale delle popolazioni europee, un processo cavalcato, di regola in modo odioso e spesso omicida, da politiche di stati e avanguardie spesso di ibrida ispirazione “nazional-sociale”. Un’omogenizzazione così rapidamente ottenuta, e indicata come fine tanto dalla destra nazionalista e fascista quanto dalla sinistra (ché questa era l’essenza delle ben intenzionate politiche “nazionalpopolari” italiane come dell’espulsione di tedeschi, ungheresi, italiani caldeggiate da Stalin in Europa orientale) è chiamata oggi a confrontarsi con un velocissimo capovolgimento di direzione che non è facile gestire.
Il secondo gruppo di problemi è quello che discende dal declino dello status e della posizione dell’Europa in un mondo che aveva a lungo dominato, incarnato da una decolonizzazione che ha rappresentato anche una sconfitta del potere del nostro continente. Anche questo è stato indubbiamente un cambiamento positivo, almeno dal punto di vista degli ideali di giustizia e libertà che amiamo identificare con l’essenza dell’esperienza europea (ma che spesso tali non sono stati). Sicuramente, però, questa perdita di status e questo ridimensionamento, che hanno anche coinciso con un impoverimento relativo, è alla radice di una parte del sordo malcontento che da qualche decennio attraversa strati non piccoli della popolazione di un continente abituato a regnare sul mondo e che si è scoperto marginale.
Il terzo gruppo è di nuovo il prodotto di un cambiamento direttamente e molto positivo, e per questo sorprendentemene ben accolto malgrado la sua novità, vale a dire il velocissimo diffondersi dell’istruzione anche superiore e universitaria di massa. Il suo impatto è stato nel complesso benefico, ma se ne cominciano a vedere anche i problemi. Faccio solo due esempi: il primo è quello del risentimento di una parte della popolazione maschile di fronte a una macchina che filtra e gerarchizza gli studenti anche ai fini del reddito, e lo fa in base a criteri e capacità che in tutto il mondo sembrano più connaturati a quelli posseduti dalle donne, come indicano tutti i dati relativi a titoli acquisiti, voti riportati ecc. Il secondo è la crescita spontanea, specie in chi ce la fa, di ideologie basate su un concetto falso e falsante di merito: io sono medico, ingegnere, dirigente perché ho studiato e me lo merito, tu fai una vita inferiore perché a questa hai provato di essere adatto. Ora, è chiaro che conviene a tutti che le mansioni più complesse siano affidate ai più dotati, che ne ricavano maggiori guadagni, ma il talento ha forti componenti genetiche, casuali e sociali e non è quindi un merito ma un vantaggio. Più che vantarsene, chi ne gode dovrebbe sentirsi in qualche modo obbligato a ripagarne la società che gli dà la possibilità di dispiegarlo. La falsa ideologia del merito, che pervade in tempi di istruzione di massa sia la destra che la sinistra (e in Italia persino i Cinque stelle) suscita invece sentimenti e comportamenti sgradevoli in chi ce l’ha fatta e acuisce il risentimento e la rabbia di chi non è riuscito.
I problemi derivano in primo luogo dalle dinamiche della popolazione, da una denatalità che dura ormai da 50 anni e dal velocissimo processo di invecchiamento di italiani e europei. C’è poi il declino dello status e della posizione dell’Europa in un mondo che aveva a lungo dominato L’impatto del velocissimo diffondersi dell’istruzione anche superiore e universitaria di massa è stato nel complesso benefico, ma se ne cominciano a vedere anche i problemi. La crescita spontanea, specie in chi ce la fa, di ideologie basate su un concetto falso e falsante di merito
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Il tracollo del comunismo ha trascinato con sé il socialismo e con esso la visione a fondamento delle politiche operative della sinistra, un tracollo che Craxi non fu capace di vedere e cui Berlinguer rispose sostituendo la politica con moralismo e perbenismo (foto archivio storico LaPresse). In prima pagina, Elly Schlein (foto Cecilia Fabiano/LaPresse)