Il Natale celebra la festa della nascita di Gesù, del Dio che si fa uomo, che si inabissa nella vita infranta che è la nostra vita, la vita di tutti gli esseri umani. Il messaggio cristiano non è, infatti, quello di abbandonare questa vita per raggiungere un’altra vita, una vita che non conoscerebbe né nascita né morte, una vita senza tempo, perfettamente compiuta, eterna, sottratta all’inferno di questo mondo. Piuttosto è quello di continuare a nascere in questa vita, di nascere nuovamente, di non smettere mai di nascere. Si tratta di accogliere sino in fondo la sfida della vita, della sua insicurezza, della sua mancanza, del suo essere vita infranta. È quello che non comprende Freud quando riduce la vita cristiana ad una vita che vorrebbe fuggire dall’asprezza del mondo, ad una vita che si ripara dalle turbolenze della vita grazie allo scudo offerto Dio.
Tutto il contrario: sin dalla sua nascita l’essere umano incontra la sua vulnerabilità e la sua insufficienza. La vita cristiana non è vita assicurata, protetta, garantita, ma vita che fa esperienza dell’abbandono, della perdita, dello smarrimento. L’uomo di fede non si risparmia, non è soggiogato da una pulsione securitaria, non tende a fuggire dalle asperità della vita, ma si trova sempre gettato, come Paolo ha sottolineato con forza, nella “ristrettezza”, nella “persecuzione”, nella “fame”, nella “nudità”, nel “pericolo” (Rm, 8, 35). Nell’evento della nascita di Gesù il divino si abbassa e si svuota di ogni potere sovrannaturale per farsi uomo. È l’umiltà della stalla, della paglia, della mangiatoia, del fiato degli animali che riscalda il bambino venuto dal cielo. È lo sradicamento di una vita che non ha casa, alloggio, residenza, titoli, potere. Come se venisse qui ripresa radicalmente la divisione che attraversa la creatura umana descritta dalla Torah. Essere immagine e somiglianza di Dio, incarnare lo splendore della creazione e, al tempo stesso, essere polvere destinata a ritornare nella polvere. La vita si afferma nella sua nuda forza e, nello stesso tempo, nella sua altrettanto nuda inermità. È questo che ogni volta ci meraviglia nello spettacolo della nascita. Accade per un gattino, come per un fiore o per un bambino. Luce e polvere appaiono stretti insieme in un solo spasmo. Nascere ancora, continuare a nascere, non nonostante ma proprio perché la nostra vita è fatta di polvere ed è destinata a tornare nella polvere. Nell’evento della nascita la verità della vita si manifesta come volontà di vivere. Per questa ragione, Sartre riteneva, paradossalmente, che si deve scegliere di nascere per nascere davvero. A significare che l’evento della vita che nasce non può compiersi come un semplice evento della natura, ma esige un atto singolare di adesione alla vita. Se il Dio cristiano nasce come un qualunque essere umano, se la sua dimora non è più quella gloriosa del cielo, ma quella umilissima di una grotta sperduta di Betlemme, è per segnalare che l’evento della vita è in se stesso, ovunque accada, un evento gioioso. Se però riusciamo a non confondere la gioia con l’ideale della felicità, sul quale, in questo caso giustamente, Freud ha speso parole definitive riconoscendo che esso appare del tutto estraneo al programma della creazione. Se infatti la rincorsa della felicità come vita armoniosa, stato d’essere che esclude la mancanza e la pena, la sofferenza e l’inquietudine, appare una vera e propria illusione religiosa poiché la vita umana è sempre vita infranta, la gioia è una possibilità che non ci è affatto preclusa. Per questa ragione Deleuze per definire la gioia una volta propose un esempio apparentemente controintuitivo. Immaginiamo un uomo moribondo, senza più speranza di guarigione, esausto nel suo letto d’ospedale.
E immaginiamo che in un certo istante un raggio di luce lo raggiunga. Ecco, commenta il filosofo, che cosa è la gioia. La gioia non è nulla più di questo incontro con un raggio di luce inatteso. Quest’uomo non è, in quel momento, compresso dal dolore, dedito alla preghiera, impegnato a fare il bilancio della propria vita. Piuttosto può vivere pienamente la semplice gioia di un raggio di luce. In quel momento egli fa tutto quello che può. Nasce ancora anche se solo per un solo istante. Ecco una lezione che potremmo trarre dal mito cristiano della nascita di Gesù. La vita umana diviene vita colma di gioia non quando raggiunge un ideale (impossibile) di felicità, ma quando fa tutto quello che può. Non tanto con la forza della volontà, con l’irrobustimento della propria determinazione, con la disciplina dei propri comportamenti, ma nell’accogliere il mistero stesso della vita racchiuso nella nascita, nel vivere sino in fondo il nostro essere consegnati alla vita. L’uomo moribondo non può riacquistare la forza dei suoi vent’anni, non può liberarsi dalla malattia, ma può consegnarsi a quel raggio di luce che lo sorprende ancora. Ogni volta che qualcuno nasce alla vita è come se fossimo toccati da quella luce. Nell’evento di ogni nascita la vita mostra solo se stessa, non rinvia ad altro che alla sua forza e alla sua inermità. Ogni volta che qualcosa nasce la verità della vita si mostra al di là di ogni conoscenza erudita della verità. Non c’è infatti verità alcuna senza una vita che nasce.