«Quando donne e bambini feriti a Gaza salgono a bordo, si vede che hanno la paura scolpita negli occhi. Si ritrovano circondati da militari stranieri e questo li spaventa ancora di più. Poi capiscono che ci prendiamo cura di loro in ogni modo: sono sorpresi, perché nella loro vita non c’è mai stato nulla di simile. E molto lentamente riescono a ritrovare un briciolo di serenità». Il contrammiraglio Vincenzo Aglieri è appena tornato dal porto egiziano di Al Arish e fatica a superare le emozioni di questa missione. Ha la responsabilità del personale medico imbarcato sull’intera flotta italiana e ha guidato finora lo staff clinico della Vulcano, l’unità da supporto logistico della Marina che soccorre le vittime civili dei bombardamenti israeliani.
Dal 3 dicembre le due sale operatorie e gli ambulatori attivi sulla nave lunga quasi 200 metri lavorano senza sosta, con l’impegno di 50 tra chirurghi, infermieri, tecnici di laboratorio di tutte le forze armate a cui si sono aggiunte un’equipe del Qatar e una della Fondazione Francesco Rava.
«Siamo partiti – spiega Aglieri – senza sapere cosa ci attendesse perché la situazione era incerta.
Quando è cominciata l’attività, abbiamo trasformato l’organizzazione in base alle esigenze: ad esempio abbiamo fatto venire un chirurgo plastico per assistere gli ustionati.
Pensavamo di agire come un pronto soccorso, invece ci siamo ritrovati a fare da terapia intensiva e gestire interventi delicatissimi». Appena la Vulcano ha gettato l’ancora ad Al Arish – il porto più vicino a Gaza – , sono entrati in azione: il giorno dopo ci sono state due operazioni contemporaneamente. Una bambina con l’addome lacerato dalle schegge di un ordigno. E una donna di 38 anni estratta dalle macerie, che rischiava di perdere l’uso di entrambe le braccia: «Le abbiamo trapiantato un nervo, ci sono volute parecchie ore. L’indomani ha ripreso a muoverle».
I feriti palestinesi ricevono le prime cure a Rafah dai medici egiziani,che smistano i casi più gravi. «Il loro triage è necessariamente frettoloso. Un referto indicava “lesione d’arma da fuoco alla spalla”; in realtà il proiettile aveva spezzato la clavicola e si era conficcato nel cranio, dietro al cervelletto». I tre medici del Qatar parlano con le pazienti e ricostruiscono il quadro esatto dei problemi. Le diagnosi sono lo specchio di ciò che accade nella Striscia: «Traumi da esplosione, tantissime schegge, le fratture di chi è stato travolto dai palazzi distrutti, amputazioni condotte in emergenza…», elenca Aglieri con voce triste. Gli apparecchi diagnostici, inclusa la Tac, permettono di stabilire come procedere. In molte situazioni c’è solo un trattamento negli ambulatori, in altre si opera: «Il nostro compito è stabilizzarli ed evitare che muoiano, salvare gli arti e rendere i feriti in grado di affrontare un lungo trasferimento».
A bordo solo i minorenni hanno un accompagnatore. Un marinaio e una donna ufficiale, italiani di madrelingua araba, sono sempre al loro fianco: «Per capire cosa hanno passato, basta osservare i disegni che fanno i bambini. Nei primi giorni usano colori cupi e riempiono i fogli di aerei, di bombe, di morti: tirano fuori il terrore che hanno sofferto ». Per i superstiti di Gaza la degenza è una continua sorpresa: letti, bagni, pasti regolari. La Fondazione Rava consegna giocattoli e abiti. «Sono stupiti, guardano i cuscini e i piatti con meraviglia. Molti non hanno mai avuto un’esperienza simile».
La Vulcano, in servizio da due anni, è stata progettata per lunghe missioni e offre spazi comodi: nulla a che vedere con i locali angusti delle vecchie navi militari. La possibilità di ricovero però è limitata: ci sono sedici posti e i pazienti restano solo il tempo necessario a stabilizzarli. Dopo donne e bambini palestinesi vengono portati in ospedali egiziani, turchi o del Qatar, con una catena internazionale di solidarietà. «Ai piccoli piace molto lo scudetto tricolore che teniamo sul braccio e quando vanno via gliene regaliamo uno. La cosa più bella è scoprire come sono cambiati i disegni: ritrovano i colori vivaci e il sole splendente». Uno ha donato ai marinai il ritratto della Vulcano. Un altro ha voluto mostrargli come era Gaza prima della guerra: le palme, le persone sorridenti, le case intatte. Tra le nuvole, ha messo comunque la sagoma minacciosa di un caccia che getta bombe. «Io porto l’uniforme ma sono un medico – conclude il contrammiraglio Aglieri -. Mi sono domandato che futuro li attende: se si riuscirà a spezzare il vortice d’odio in cui sono cresciuti… Noi possiamo dare un aiuto minimo, ma più volte lì mi è tornata in mente una frase che è sia nel Corano, sia nel Talmud ebraico: “Se uno salva una persona, è come se salvasse l’intera umanità”».
La speranza ha il volto di una bimba nata ieri. La madre ha 24 anni ed è stata imbarcata per accompagnare un’altra figlia ferita: vorrebbe chiamare la piccola Italia Ilin, ma come da tradizione la decisione spetterà al padre rimasto a Gaza. Stanno tutte bene. E per l’equipaggio della Vulcano l’arrivo di una nuova vita in mezzo a tanto dolore è il più bel regalo di Natale.