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Giovanni Gentile o Roberto Vannacci? Ai posteri l’ardua sentenza – anche se, in termini di copie di libri vendute, l’egemonia se l’è già presa l’ex generalissimo. In attesa che il ministro Alessandro Giuli, vertice dell’establishment culturale della destra di governo, sciolga il quesito che gli ha indirizzato su queste colonne Alberto Mattioli, va registrato un elemento nuovo. E non di poco conto, perché, ben lungi dal «rinnegare con chiarezza il populismo» – come Mattioli invita saggiamente il neo-ministro a fare –, la destra-destra è arrivata nelle stanze dei bottoni grazie a una sua ennesima e inedita variante.
Dopo il populismo culturale, infatti, è arrivato il momento di quello “intellettuale”. Il primo sostiene che le pratiche simboliche, le esperienze e i modi di pensare delle persone comuni sono decisamente più importanti di quella che veniva considerata la “Cultura” con la C maiuscola. Un aspetto che è stato molto studiato, anche a sinistra, attraverso i metodi dei cultural studies, e che (su tutt’altro piano) è stato direttamente adottato come una bandiera ideologica dai partiti neopopulisti, che lo hanno brandito contro i “professoroni”, i “tecnici”, i “giornaloni” e tutti coloro i quali, a loro dire, non mettono mai il naso al di fuori della “Ztl”.
A conferma di una tradizione di lunga data delle retoriche populiste, caratterizzata da una marcata componente anti-intellettuale, che si aggiungeva a quella anti-partitica e anti-sistema. Una categoria da intendere in maniera estensiva, dato che a far saltare la mosca al naso dei neopopulisti non sono stati solamente gli intellettuali propriamente intesi, bensì anche altre figure ficcate a forza nel gruppo, dai tecnici agli innovatori tecnologici, fino a interi settori del pubblico impiego accusati di essere ricolmi di burocrati che creano ostacoli. Il tutto, in genere, prima dello sbarco nei Palazzi, all’indomani del quale si assiste immancabilmente a torsioni e giravolte perfino in questo campo, perché l’ambiguità (senza giustificazioni) è scritta nel Dna, e sta alla radice, del populismo.
La “nuova egemonia culturale”
Ed ecco che da qualche tempo a questa parte, nell’accelerata marcia di avvicinamento al potere, e in coincidenza con la storia – e la “fissa” – della tanto rivendicata “nuova egemonia culturale”, la destra-destra riscopre, invece, proprio gli intellettuali. Siamo così al populismo intellettuale, fase strumentale di quello culturale. E gli intellettuali d’area (al netto di alcuni studiosi conservatori,specialmente storici o politologi che mantengono comunque sempre un’autonomia di pensiero, coincidono di fatto con dei comunicatori, e dunque a modo loro sarebbero pure dei (vituperati) “tecnici”. Peraltro sempre gli stessi (grosso modo “quattro amici al bar di Colle Oppio”), con più posti da occupare che teste d’uovo fidate da metterci sopra.
La melliflua narrativa free-vax, che puntava a risultare più presentabile, dicendo in realtà le stesse cose, dei movimenti No vax non “cade dal pero” e “non nasce in natura”, ma è appunto il frutto di un’elaborazione effettuata all’interno di certi ambienti culturali populisti.
Al pari del cosiddetto science-related populism, secondo cui la “gente comune” e il “popolo” si rivelano capaci di stabilire quale sia la conoscenza autentica molto meglio delle élites scientifiche e tecnocratiche (tutto un programma, e un proclama…).
Propaganda faro della destra
È la propaganda, infatti, il vero pilota automatico della cultura della destra contemporanea (vale a dire postmoderna), dalle tv commerciali alle piattaforme e ai social media. E, dunque, più che filosofi eredi dell’idealismo gentiliano, si incontrano figure che vengono dal giornalismo o dai media, perché la competenza primaria (e praticamente unica) che viene loro richiesta è quella di comunicare a supporto del leader.
Il paesaggio politico della destra-destra nazionale (da Salvini a Meloni) è popolato esclusivamente di partiti personali, con il capo o la capa indefessamente impegnati nella campagna elettorale permanente, e che si ritrovano quindi fortissimamente bisognosi di grancasse propagandistiche.
L’intellettuale della destra neopopulista è, allora, un produttore di atti comunicativi assai più che di cultura politica (sempre che, travolto da qualche affaire, non veda la comunicazione ritorcerglisi contro).
E anche se la lottizzazione (che non è una prerogativa della destra, va riconosciuto) viene magnificata come la “conquista di casematte e fortezze” (per dirla con l’ennesimo scippo di Gramsci), rimane nient’altro che un poltronificio.
E non ha niente a che fare con la ventilata egemonia.