segue dalla primaLa globalizzazione l’avrebbe reso felice: era una promessa di utilità non “per gli uomini”, ma “per tutti gli uomini”, per tutta la grande famiglia umana. Il mondo globale sarebbe stato il sostrato più adatto alle universali aspirazioni di pace messe per iscritto cento anni fa, tra le rovine fumanti della Seconda guerra mondiale.
Dante Alighieri, dall’alto del Paradiso, contempla però ancora oggi la terra e la vede come la “aiuola che ci fa tanto feroci”. Anche noi, guardando non dal paradiso ma dalla bassura delle vicende in cui siamo immersi, potremmo dire la stessa cosa. Non ci sono solo le guerre in corso, con le centinaia di migliaia di morti innocenti, civili e soldati, che delle ragioni di coloro che le hanno scatenate non sanno nulla e, se lo sapessero, non gliene importerebbe nulla.
Quanto è visibile, invece che sdegno, provoca un’assuefazione che durerà fino a quando la guerra non arriverà sulla porta delle nostre case. C’è molto di più: l’orientamento alle esigenze belliche della ricerca tecnologica e dell’economia di guerra sposta progressivamente le risorse pubbliche dal benessere dei cittadini alle spese per le armi. Poiché il segreto copre l’indicibile per sottrarlo alla vista dell’opinione pubblica, noi, pubblico profano, intravediamo soltanto da lontano quello che succede. Il pianeta intero, e forse non ce ne rendiamo conto o facciamo finta, è una polveriera pronta a scoppiare per una scintilla occasionale o volutamente provocata.
In più, in una diagnosi realista e non ideologica, non si può trascurare che le guerre in corso sono, in certo senso e quasi tutte, guerre intestine. Sono guerre interne a un contesto che abbraccia tutte le potenze in campo e tutte, direttamente o indirettamente, sono coinvolte. Non è possibile uscirne, sottrarsi, lasciare agli altri il compito di combattersi, di distruggersi. Nessuno può incolpevolmente stare a guardare e dire: non mi riguarda. La guerra, non la pace, si è globalizzata. Economia, tecnologia e politica sono dappertutto alleate nella corsa all’accaparramento dei beni della terra in vista di quello che una volta si chiamava progresso e oggi si chiama sviluppo. Il sistema rapace dell’economia di mercato e delle illusioni di benessere crescente ch’essa offre come allettamento, si scontra con la sempre più chiara limitatezza delle risorse di cui ha bisogno. Le varie “crisi” del nostro tempo (climatica, alimentare, idrica, energetica, da inquinamento marittimo e atmosferico, eccetera), i disastri che chiamiamo “naturali” per esorcizzare le nostre responsabilità, la progressiva invivibilità di parti del pianeta impoverite da voraci economie di rapina che spostano migranti a milioni dai Paesi natali: chi potrà fermare questa spirale in cui tutti girano, e girando accelerano?
Questo moto è ciò che chiamiamo Occidente. Ha vinto la battaglia su scala mondiale: diciamo globalizzazione, ma dovremmo dire più precisamente, occidentalizzazione. È contagiosa. Tutto ciò che tocca, omologa. I grattacieli di Hong Kong e di Dubai sono il proseguimento di quelli di Manhattan e di Boston; e con le architetture, i modi di vivere. Paesi che per millenni avevanosconfitto o rallentato l’angoscia del vivere di corsa, come la Cina e il Giappone, sono pienamente in pista, anzi all’avanguardia. Le tradizioni sopravvivono, ma come folklore per i turisti. Chi è partito più tardi, arranca per non sfigurare.
L’ Occidente senza distinzioni e sfumature, in questo mondo di guerra, è a sua volta ideologia bellica. Tante cose è l’Occidente, tante di cui la sua storia può gloriarsi, tante di cui ha da vergognarsi.
Quando lo contrapponiamo, anche con le armi, a “il resto del mondo” che ci vuol male, non ci accorgiamo della semplificazione e, in fondo, del torto che facciamo a noi stessi quando rinunciamo allo spirito autocritico che, dell’Occidente, è la sua essenza. E, in più, se rinunciamo a vedere quanto di Occidente c’è ormai anche in quel mondo e quanto di ricchezza originale “non-occidentale” ancora residua; se, attraverso schematiche riduzioni ad unum, rinunciamo a distinguere ciò che è giusto accettare e ciò che è giusto combattere negli altri e in noi, rischiamo grosso. È facilissimo per i popoli del “resto del mondo” ricordare e rinfacciare, non certo a torto, i secoli di oppressione e sfruttamento da parte di quello che ai loro occhi è l’aggressore principale dei tempi moderni: l’Occidente per l’appunto. Nel 1884-5, alla Conferenza di Berlino, voluta dalla Francia e dalla Prussia di Bismark, gli Stati europei dell’Ovest si divisero l’Africa, tracciando confini funzionali alla loro fame di spazi ma assurdi per le popolazioni locali, facendone terre in cui avere mano libera. Anche questo è Occidente. È impensabile che si risveglino i nazionalismi, i fondamentalismi religiosi e identitari, i rancori per le ferite ancora vive del colonialismo?
L’unificazione del mondo in nome della globalizzazione non è riuscita. La guerra è ancora tra noi. Che cosa ha impedito agli ideali d’un tempo, pur così ovvi, naturali e umani, di costruire un mondo di pace? Qualcuno dirà: la natura umana che comprende la guerra.
“Pòlemos, padre di ogni cosa” dicevano gli Antichi. Quel “grande mattatoio” che è la storia offrirà buoni argomenti, magari anche per lasciarsi andare all’elogio della guerra, sull’esempio dei futuristi e dei fascisti (la guerra “igiene dei popoli”). Si vada a dirlo alle vittime e si vedrà l’accoglienza. Nel mondo attorno a noi riconosciamo facilmente che non hanno vinto il liberalismo, il socialismo, le ideologie umanitarie, la solidarietà. Ha vinto silenziosamente la più crudele delle ideologie: il darwinismo sociale, la concezione della vita come il grande agone della lotta per la sopravvivenza, dove i più forti schiacciano i deboli. Sono gli oligarchi, i “capitani coraggiosi” di questo sistema.
Non possiamo aspettarci nulla di serio per la pace da parte di costoro, perché non è nella loro natura. Nel 1945-48 si parlava e si credeva nella pace e la inscriveva come parola d’ordine in trattati, dichiarazioni, costituzioni. Ingenuità? No, fiducia nella democrazia nella ribellione alle ingiustizie e alla più grande di tutte, la guerra.
Da lì, dalla democrazia contro le oligarchie, mi sembra dovrebbe ripartire la speranza per l’anno nuovo delle donne e degli uomini pacifici, facitori di pace.