L’altro giorno ho chiesto a uno studente se conosceva gli accordi di Oslo e l’ho visto perso, dentro una nebbia talmente fitta che mi sono sentito male per lui. È la stessa nebbia che avvolge tutti, chi più chi meno, perché l’informazione senza conoscenza confonde e basta. Anch’io sento i notiziari e ho paura della Terza guerra mondiale, ci mancherebbe altro. Ma poi mi riconsolo pensando che in Medio Oriente la pace si nasconde spesso dentro la guerra, ed è per questo che nessuno la vede arrivare. Successe tra Egitto e Israele, tra Giordania e Israele, successe a Oslo, con gli Accordi di Abramo, e c’è solo da sperare che possa succedere ancora…
E tuttavia scorgere oggi un orizzonte di pace in Medio Oriente è più difficile di sempre: in Israele il sionismo alla Ben Gurion che contemplava uno Stato palestinese ha lasciato il posto al revisionismo alla Jabotinskij; sul fronte palestinese ci sono da un lato un ritorno del terrorismo targato Hamas, dall’altro un’Autorità Palestinese da reinventare; e sul piano internazionale abbiamo gli americani che non saranno mai un honest broker, i russi che seminano instabilità, iraniani e sauditi che pensano ai fatti propri, con la sponda cinese, e gli europei che per contare davvero dovrebbero essere più coesi.
Ora il problema è che tutto questo tenderà a perpetuarsi, ostacolando la ripresa di un negoziato, a meno che non intervenga un cambio di paradigma. Troppo spesso la politica e la diplomazia hanno mostrato di non saper vedere oltre la desolazione del presente. E quindi c’è da augurarsi che in futuro cambino atteggiamento, traendo magari ispirazione da certi romanzi di Oz, Yehoshua o Grossman, che spiegano l’esigenza dei due Stati meglio di quanto non faccia Gerusalemme; o dalle poesie di Darwish, che sa delineare l’agenda palestinese meglio dei leader a Ramallah.
È Kissinger a sostenere che nei momenti più difficili, uno statista debba comportarsi da romanziere. Debba cioè saper vedere l’invisibile, quel che esiste ma sfugge alla vista. Per questo tra i suoi sei grandi leader del Novecento troviamo Sadat, che nella guerra del Kippur intravide il seme di una pace con Israele. Che poi fu quel che a Oslo fecero Rabin e Arafat, che videro la possibilità di un’intesa laddove altri non la vedevano; o l’israeliano Yossi Beilin e il palestinese Yasser Abed Rabbo, artefici dell’Iniziativa di Ginevra, quando seppero immaginare un’incredibile stagione di trattative, dopo anni di guerre, intifade, terrorismo e repressioni.
Oggi, mentre a Gaza infuria la battaglia e nessuno riesce a intravedere spiragli, c’è solo da sperare che qualche statista-romanziere di nuova generazione stia scrutando l’invisibile sotto la superficie delle cose, per far ripartire le trattative non appena sarà chiaro a tutti (si spera presto) che la soluzione non può essere militare. Di Oslo fu fallimentare il processo, perché quegli accordi non furono mai attuati; ma la sua ragion d’essere, cioè la creazione di uno Stato palestinese, è più attuale di sempre. E dunque è sul come che va avviata una riflessione, da subito, senza dimenticare che anche in guerra esistono sempre più cose di quelle che mostrano gli occhi.
Vengono in mente quattro punti.
Primo: invece che una strategia dei piccoli passi, stavolta il negoziato dovrà partire dalla politica, cioè Gerusalemme, confini, sicurezza e rifugiati, ossia dai punti ignorati a Oslo. Oggi però la questione impellente è il futuro di Gaza. Ed è su di essa che andrà verificata la volontà politica di israeliani e palestinesi di riprovarci sul serio.
Secondo: la regola negoziale nothing is agreed until everything is agreed
non va più bene. Il negoziato israelo-palestinese comprende un’infinità di dossier, servono anni a definirli tutti. Per cui la regola dovrà essere quella opposta: cioè spacchettare la trattativa e dare attuazione alle intese sui singoli punti man mano che verranno raggiunte.
Terzo: gli Usa come garanti del processo non bastano più.
E Onu e Ue non sono risolutivi. Essenziale dunque coinvolgere la regione, a partire dai Sauditi, riprendendo il loro piano di pace del 2002 basato sui “due Stati”, su cui all’epoca fu possibile far convergere la Lega Araba.
Quarto: Tra Abbas e Netanyahu non ha mai funzionato. Ci vuole chimica al tavolo negoziale, come tra Rabin e Arafat, e senza non si può fare. Spetta ai due popoli trovare una soluzione. Ecco perché nel frattempo è la regione che deve aiutare l’avvio di una trattativa, anche perché dopo una guerra, ci vuole più tempo per aprire un canale bilaterale.
La diplomazia del crisis management consiste nel guardare avanti, oltre i massacri del presente, in cerca delle opportunità future che nel dopo Gaza potrebbero non essere poche. Sempre che nel frattempo non salti in aria la regione: dove però non c’è bisogno di essere statisti-romanzieri per capire che nessuno vuole alzare il livello dello scontro.