l’intervista a Elizabeth Strout
I progressisti e le guerre
di Annalisa Cuzzocrea
A Elizabeth Strout piacciono le persone. Le piace ascoltarle, spiare le loro vite, entrare nei loro pensieri. «A volte al ristorante dico a mio marito di stare zitto, perché non riesco a sentire». Non è una scrittrice politica, crea personaggi che tornano nei suoi libri quasi per caso, intrecciando storie sempre diverse che sono però un quadro del tutto fedele di quel che è l’America oggi.
Strout è stata protagonista di un affollato incontro nello stand della Stampa al Salone del libro. Non ha detto no a una sola richiesta di autografo. Ha spiegato com’è nata la protagonista dei suoi ultimi romanzi, Lucy Barton, quando un giorno a scuola decise che il ragazzino più povero, il più dimenticato, aveva il diritto di avere una voce.
In Lucy davanti al mare la scrittrice Lucy Barton torna nella sua università e la trova completamente cambiata. In questo momento le università americane sono travolte da un’ondata di proteste che chiedono la fine del conflitto in Medio Oriente, a volte represse con violenza, con punte di antisemitismo. Cosa pensa di questa situazione?
«Penso che sia molto triste tutto quel che sta succedendo perché si è deciso di coinvolgere la polizia. Quando arrivano le forze dell’ordine per reprimere studenti che protestano in modo non violento, cominciano i problemi».
Condivide le ragioni della protesta?
«In Medio Oriente c’è una situazione tremendamente complicata e confusa. Il mio pensiero è che vorrei ci fosse un immediato cessate il fuoco. E guardo con preoccupazione e tristezza a quel che succede nelle università».
È un momento in cui ci si divide in fazioni incapaci di comunicare tra loro. E in cui interviene la polizia contro il dissenso anche quando è pacifico. Vede una regressione, negli Stati Uniti e in Occidente, rispetto alla libertà di parola che abbiamo fin qui considerato intoccabile?
«Sì. Ed è spaventoso e problematico come tutto quel che sta succedendo nel mio Paese. C’è il timore di parlare liberamente in questi giorni e questo non va bene».
Ha simpatia nei confronti di questa generazione?
«Sì credo profondamente in chi protesta in modo pacifico e sono felice che siano tanto interessati al mondo che li circonda».
Lei ha mai fatto proteste di questo tipo da ragazza?
«No, avevo troppo paura. Anzi, una volta sì, c’ero quasi solo io con il mio cartello alzato. Un poliziotto ha fatto il giro dell’isolato, mi ha guardata e poi è andato via».
Nel libro il marito di Lucy, William, a un certo punto dice: le persone hanno guai seri e noi non solo non le capiamo, ma ci sentiamo superiori. È dopo che Lucy capisce che una donna con cui ha fatto amicizia durante la pandemia è una sostenitrice di un presidente che sembra Donald Trump, e non vuole vaccinarsi.
«Anche se io scrivo soprattutto di personaggi, e non di idee, quello è un punto centrale del romanzo che si svolge in un periodo storico importante, durante la pandemia di Covid, ed è per questo che ho fatto dire quella frase a William».
Crede che le forze progressiste, in cui Lucy e la sua famiglia sembrano identificarsi, facciano l’errore di sentirsi superiori rispetto alle persone che “hanno guai seri”?
«Sì, credo ci siano stati progressisti che si sono sentiti superiori. Non è mai utile sentirsi superiori».
In Lucy davanti al mare c’è come una preoccupazione di fondo rispetto ai tempi che il mondo vive. È una cifra un po’ diversa da quelli, più intimisti forse, che lo precedono. Come mai?
(Elizabeth Strout sorride come a stemperare la risposta). «Perché sono tempi spaventosi per il mondo intero e soprattutto per il mio Paese. Non avrei mai pensato di vivere quel che stiamo vivendo».
Da donna avrebbe mai pensato che si sarebbe tornati indietro nella legislazione sull’aborto?
«Mai al mondo».
Margaret Atwood, l’autrice de I racconti dell’ancella, quando è stata rovesciata a Roe versus Wade si è fotografata con una tazza incui era scritto: I told you so.
«Forse è stata più acuta di me».
C’è un momento nel libro in cui Lucy si tormenta perché c’è sempre un’ultima volta in cui prendi in braccio tuo figlio, ma in quel momento non lo sai. Lei non è i suoi personaggi, ma quell’immagine appartiene al suo essere madre?
«È divertente perché ho detto che non sono Lucy, ma questa è una cosa cui ho pensato qualche hanno fa e che mi ha spezzato il cuore. Vorrei tanto ricordare quando è stata l’ultima volta che ho preso in braccio mia figlia, vorrei averlo saputo. Così ho pensato: questa è una cosa che Lucy potrebbe pensare».
I suoi personaggi tornano nei libri e si intrecciano con nuove storie. È come incontrare un amico dopo tanto tempo. Come si fa?
«Non ho mai deliberatamente deciso di scrivere un altro libro sui miei personaggi, solo che poi lo faccio sempre. E ho capito che è perché queste persone sono così reali per me, ho passato talmente tanto del tempo interiore della mia vita per dare loro forma, che non vanno via. Mi mancano e ne scrivo di nuovo».
Lucy Barton è stata una bambina molto povera, maltrattata, salvata dallo studio e dalla scrittura. Il racconto del suo passato nelle pagine di vari romanzi è reso in modo estremamente partecipe. Da dove viene, la sua storia?
«Quando ero piccola nella mia piccola città c’era una famiglia come quella di Lucy. Così povera e così strana che nessuno voleva avere nulla a che fare con loro. Uno dei figli di questa famiglia, che ho saputo è mancato da poco, era seduto nel banco davanti a me a scuola e non parlava mai con nessuno. Ricordo distintamente che un giorno un insegnante andò da lui e gli disse: “Hai dello sporco dietro le orecchie, vergognati, nessuna famiglia è tanto povera da non potersi permettere di comprare neanche una saponetta”. Ho trovato fosse una cosa terribile, mi ha colpita così profondamente che mi sono detta: queste persone hanno diritto ad avere una voce. È questa la genesi della storia di Lucy Barton. In tutte le città che ho visitato, c’è una famiglia come quella».
Lucy, Bob Burgess, William, torneranno di nuovo?
«Sì. Torneranno».