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L’utilizzo dei dispositivi e delle piattaforme digitali da parte dei bambini è un importante fenomeno carsico che nel periodo post-pandemico sta emergendo in tutta la sua dirompente capillarità, al punto che non è affatto esagerato, né tantomeno pretestuoso, tentarne un’indagine analizzandolo alla stregua di una pedagogia surrogata.
Dai dati elaborati dall’agenzia di marketing digitale We are social, YouTube è da cinque anni il primo sito in Italia per durata della singola visita. Se questo dato non deve necessariamente sorprenderci, la stessa agenzia ha rilevato che YouTube è stato anche il social media più utilizzato dal 2017 al 2020, davanti addirittura all’app di messaggistica WhatsApp.
Tuttavia, incrociando questi dati con i Google trends e con la classifica dei canali italiani per numero di visualizzazioni, viene da domandarsi se il campione di intervistati per questi report annuali, di età compresa tra i 16 e i 64 anni, costituisca un modello effettivamente rappresentativo della crescente platea di utenti della piattaforma.
Per quanto riguarda i Google trends, nell’anno 2020 la parola canzoni è stata la più cercata su YouTube in Italia. Nondimeno, indicizzando con valore 100 questo termine molto ampio e generico, ben 97 ricerche hanno riguardato la query specifica me contro te e 80 il nome proprio di lyon. Inoltre, i canali Me contro te e Lyon superano abbondantemente, insieme, le visualizzazioni complessive dei primi tre canali che si rivolgono a un pubblico generico, vale a dire Warner Music Italy, Rai e Serie A (17,9 contro 12,4 miliardi di views), i quali erano anche gli unici a figurare nella top ten nostrana prima dell’avvento degli shorts.
Il canale in lingua italiana di maggior successo è di gran lunga quello dei Me contro Te, inaugurato nel 2014 da una giovane coppia della provincia palermitana che ha deciso di rivolgersi fin da subito ad un pubblico infantile e italofono. Le cifre del trionfo di Luigi Calagna e Sofia Scalia sono davvero straordinarie: a fronte di 5,9 milioni di bambini residenti in Italia tra gli 0 e gli 11 anni, i due vantano ad oggi 6,81 milioni di iscritti e quasi 10,2 miliardi di visualizzazioni. Immaginando che ogni minorenne residente nel nostro paese segua il loro canale, possiamo calcolare che ogni spettatore entro i 17 anni abbia visualizzato più di un migliaio di loro video.
Da una prospettiva educativa, questa grezza media statistica può essere letta come dato estremamente significativo per provare a comprendere la distanza culturale che si sta venendo a creare tra docenti e discenti – o più in generale tra il mondo adulto e quello dei bambini. Consideri ora il lettore quanto sia prossimo o distante dall’avere guardato (per quanto non necessariamente per intero) un tale numero di video da un singolo canale YouTube. Ebbene, da almeno una quindicina d’anni gli studiosi stanno riflettendo sulla progressiva scomparsa di un orizzonte culturale condiviso, di quel terreno di comunicazione intergenerazionale imprescindibile per il dialogo e la trasmissione pedagogici.
È evidente a chiunque frequenti le istituzioni scolastiche quanto gli insegnanti e i loro studenti parlino lingue sempre più diverse, proprio in quanto oramai appartenenti a culture distinte e via via più distanti. Culture divise, spesso anche tra gli stessi compagni di classe, da uno iato reso ancora più profondo dal periodo di confinamento pandemico, durante il quale il successo degli youtuber italiani ha raggiunto quote e proporzioni davvero vertiginose: quasi 9 milioni di visualizzazioni quotidiane tra marzo e maggio 2020 per i Me contro te, poco meno di 6,5 milioni per Lyon – numeri paragonabili alla media spettatori delle sole cinque serate dell’edizione del Festival di Sanremo del 2021 (8,363 mln) e decisamente superiori al pubblico delle partite di Champions League trasmesse in chiaro da Mediaset negli stessi anni (intorno ai 4,5 mln).
Un consumo mediatico così intensivo non può che lasciare il segno sulla psiche e sul corpo di un pubblico così giovane. Chi ha occasione di osservare gruppi di bambini che giocano o interagiscono tra loro avrà certamente notato comportamenti irriflessivi, reazioni stereotipate o pattern compulsivi inediti: dalle esibizioni collettive di twerk; alla rivisitazione distopica del gioco ‘un due tre stella’ diffusa dalla serie Squid game; a una certa attitudine al volersi aggressivamente imporre all’attenzione dei compagni, degli adulti o di una fotocamera; ai ripetuti tentativi di lanciare in aria una bottiglietta d’acqua semivuota facendola roteare e poi atterrare sulla propria base (la cosiddetta bottle flip challenge). Oppure, avrà udito neologismi anglicizzati singolari (“killare, shoppare, cheattare”), o esaminato oscuri schizzi inquietanti ispirati ai creepypasta, alle creature di Trevor Henderson o ai videogiochi horror.
Se oggi la crasi infosfera viene utilizzata dai filosofi dell’informazione per definire un habitat reale composto da informazioni, indagare in termini qualitativi i consumi mediatici dei bambini è diventata una condizione imprescindibile per potere avere accesso a un ambiente concreto, a un mondo parallelo a sé stante sempre più preponderante nell’esperienza quotidiana collettiva onlife (in una condizione ibrida tra l’online e l’offline), all’interno della quale i bambini si giocano la loro identità e il loro percorso di crescita privi di coordinate e di figure di riferimento.
Ora, i Me contro te sono stati spesso definiti dagli organi di informazione come fratelli maggiori e baby-sitter dei loro piccoli spettatori. Persino il Movimento Italiano Genitori (MOIGE), ha asserito che con «modo giovanile e spontaneo i due youtuber trasmettono la piacevolezza di mettere il proprio tempo libero a servizio della creatività, incoraggiando indirettamente i giovani a un uso limitato della tecnologia, per dedicarsi ad attività pratiche, allo stesso tempo divertenti ed istruttive». Due anni più tardi, proprio in seguito all’esplosione del loro successo, i ragazzi «impegnati a proporre video quotidiani con giochi e sfide sempre più accattivanti e divertenti senza dimenticare lo scopo educativo, come nella clip in cui spiegano come lavare correttamente i denti», hanno ricevuto il secondo riconoscimento più importante dell’associazione, anche a fronte della loro «particolare attenzione alla salute dei più piccoli».
Negli anni che hanno preceduto la pandemia, il canale non aveva certamente raggiunto l’attuale livello di popolarità, quantificabile in più di 6 miliardi di visualizzazioni da gennaio 2020 a oggi. Eppure, nei video caricati dai due youtuber nel periodo considerato, era già presente una confusione disorientante tra semplice intrattenimento e pubblicità esplicita dei numerosissimi e cangianti prodotti a marchio Me contro te. Lo spettatore smaliziato ha la netta impressione che i contenuti siano un mero pretesto grossolanamente abbozzato per fare da cornice al reale obiettivo dei filmati, vale a dire bersagliare i bambini con messaggi promozionali talmente diretti e insistenti da risultare tanto sfacciati quanto inappropriati. Ad esempio, proprio in un video del 2018, prima di mostrare al pubblico la loro nuova casa, i due youtuber sembrano fissare le condizioni per potere entrare a fare parte in maniera sempre più intima e inclusiva del cosiddetto team trote, la famiglia (termine usato dai due ragazzi) composta dai loro fan: iscriversi al canale, comprare le magliette dal negozio online e infine accaparrarsi l’album delle figurine e il loro libro in edicola o in libreria. Dettami che sono stati tanto più reiterati nel momento di maggiore successo (e di ovazione mediatica) registrato dal canale, a dispetto del frangente di massima vulnerabilità a cui è stato esposto il suo giovane pubblico: è questo il caso di un paio di video particolarmente eloquenti ed emblematici pubblicati a cavallo di febbraio e marzo 2020, pochi giorni dopo la chiusura delle scuole, all’inizio dei quali i due hanno invitato i bambini spettatori a seguire il loro profilo su TikTok e a correre in edicola per comprare i loro prodotti. «Ma, mi raccomando: prendete solo gli originali!».
A questo proposito, è bene ricordare che i messaggi pubblicitari televisivi rivolti agli spettatori minorenni sono regolati dal decreto ministeriale n. 425 del 30 novembre 1991, il quale proibisce esplicitamente «l’esortazione diretta all’acquisto, che sfrutti l’inesperienza o la credulità dei bambini». Ora, a più di trent’anni dalla pubblicazione del decreto, con la trasformazione radicale dell’offerta e dei consumi mediatici, non si può proprio misconoscere il fatto che le strategie di marketing adottate dai Me contro te stiano sfruttando una carenza normativa con modalità decisamente controverse, che un qualsiasi genitore equilibrato e coscienzioso di certo condannerebbe qualora fossero poste in essere da una tata o da fratelli e sorelle più maturi.
Verrebbe da concludere, insomma, che una delle prime lezioni apprese navigando sulle piattaforme social è che non si deve mai fare niente per niente. La gratuità, l’affetto sincero, l’assunzione di responsabilità da parte dei creator – oltre al conseguente rispetto del ruolo subalterno del bambino-spettatore – sono intrinsecamente negati fin dal design del medium digitale stesso, nel nome di un tornaconto personale (dello youtuber) e complessivo (della piattaforma). L’intrattenimento è interessato, mentre le condivisioni, meglio se intime e private in quanto maggiormente appetibili (non a caso la prima diretta di Luì e Sofì è stata trasmessa il 25 dicembre 2017), vengono mercificate dalla logica del profitto sans (t)rêve et sans merci, per dirla con Walter Benjamin: senza tregua e senza pietà. Ma anche, se non soprattutto, senza sogno.
D’altro canto, gli stessi algoritmi che orientano e decidono l’esperienza degli utenti su YouTube non incoraggiano affatto un “uso limitato della tecnologia”. Nemmeno sono progettati con particolari “scopi educativi” o di tutela della salute degli spettatori. Al contrario, sono stati costruiti con l’unico obiettivo di trattenerli il più a lungo possibile sulla piattaforma.
Un esempio su tutti: l’algoritmo che, selezionando i video suggeriti o che vengono riprodotti automaticamente al termine del video precedente, genera il 70% del traffico su YouTube funziona secondo un principio che è stato ribattezzato dagli studiosi “effetto tana del Bianconiglio”. Il sistema, individuando filmati pertinenti con i contenuti già guardati, conduce l’utente verso video sempre più curiosi ed estremi con lo scopo di catturarlo – precisamente, nel profondo abisso della tana: vale a dire, incidenti e risse per quel che concerne lo sport oppure videogiochi horror per quanto riguarda il gaming.
Di conseguenza, in particolare nel caso di uno spettatore bambino, la concentrazione non viene costruita e maturata dal basso; al contrario, l’attenzione è costantemente elicitata e catturata. L’esperienza è frenetica e sovreccitante. Sfiancante. Alienante. Il godimento senza limiti, dato dall’essere (in)trattenuti, non può essere differito né rifiutato: gli utenti deboli delle piattaforme, i bambini su tutti, sono coartati a godere bulimicamente con vuote modalità conformistiche e nevrotiche, annichilendo la dimensione della scoperta, del desiderio e del piacere sano e autentico.
E se già nel 2019 un bambino anglofono ogni tre si augurava mimeticamente di diventare blogger o youtuber professionista, siamo oggi oltremodo turbati dalla deriva culturicida che stiamo trasmettendo alle giovani generazioni per il tramite di modelli imposti attraverso la violenza simbolica (Bourdieu) di schermi sempre più presenti e penetranti, capaci di imporre visioni del mondo, categorie cognitive e strutture psicologiche, grazie al consenso inconsapevole di chi passivamente subisce questa violenza subdolamente incisiva.
In definitiva, la pedagogia surrogata di YouTube sta profondamente e irrevocabilmente modificando i suoi allievi, tanto nel corpo quanto nell’immaginario simbolico e culturale. Tra il plauso mediatico collettivo, i bambini stanno crescendo in compagnia di mesti figuri che chiedono loro esplicitamente di fidelizzarsi e di affiliarsi alla stregua di consumatori anonimi e conformisti di un’intimità mercificata in forma illimitata, in cambio di (in)trattenimento indubbiamente nocivo per la loro salute psicofisica, somministrato da piattaforme digitali il cui massimo obiettivo è di fare cadere in una spirale di dipendenza i propri utenti.
Il tema dell’abuso dei dispositivi digitali da parte dei bambini è oramai diventato l’elefante nelle stanze scolastiche di ogni ordine e grado. L’attenzione enfatica posta su temi come il cyberbullismo o il divario digitale è del tutto insufficiente per affrontare (prima ancora di sperare di risolvere) un problema complesso che ha radici estremamente profonde, tanto nella società contemporanea quanto nei corpi e nelle menti dei nostri studenti.
È ora il momento indifferibile per docenti, educatori, psicologi, sociologi e per la società nel suo complesso di interrogarsi a fondo e agire di concerto. Rapidamente e senza compromissioni.