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24 Luglio 2022«Un capolavoro». «Magistrale». «Forse il più importante studio mai scritto sul pensiero politico del Rinascimento»… Due anni fa, alla sua uscita in inglese, i recensori non hanno lesinato complimenti a La politica della virtù di James Hankins, e, ora che il libro – con le sue 730 pagine – appare anche in italiano, parrebbe che gli aggettivi più adatti a celebrare appropriatamente un’impresa di questa portata siano già stati adoperati tutti. Basterà dire allora che il volume di Hankins segna uno spartiacque e divide la ricerca sulla teoria politica della prima età moderna in un prima e un dopo.
In cosa consiste questa rottura? Nel XX secolo gli specialisti hanno raccontato il pensiero politico del Rinascimento come scontro frontale tra sostenitori delle repubbliche e dei principati. Da un lato gli amanti della libertà, dall’altro i propagandisti prezzolati del despotismo tirannico: in qualche caso addirittura in un’anticipazione della lotta tra le democrazie occidentali e Adolf Hitler. Negli ultimi venti anni, però, diversi studiosi hanno cominciato a contestare questa lettura. Troppi elementi non tornano. Anzitutto, è introvabile la contrapposizione tra repubbliche e principati cara agli storici novecenteschi: per gli umanisti la cesura corre infatti piuttosto tra le forme di governo rette, come la repubblica e il principato, e il governo illegittimo dei tiranni, i quali, invece di perseguire il bene comune, si preoccupano solo del tornaconto personale. Questo vuol dire però che – se a fare la differenza non sono le istituzioni, ma l’indole di chi amministra la cosa pubblica – massima cura va posta nell’educazione di coloro che, in virtù dei loro illustri natali, sono destinati a rivestire le cariche pubbliche. Ed è precisamente a tale moralizzazione della politica che gli umanisti – in parte loro stessi tutori e docenti – indirizzarono le loro energie, nel tentativo di aiutare i futuri leader, indifferentemente repubblicani e principeschi, a liberarsi delle pulsioni egoistiche attraverso l’esempio degli antichi. Anzitutto nell’interesse dei loro sudditi.
Su queste basi Hankins intesse il suo racconto, che corre lungo due secoli, grosso modo da Petrarca (il padre dell’umanesimo politico) a Machiavelli (il discepolo ribelle e liquidatore dell’umanesimo politico), e offre la prima ricostruzione davvero attendibile di uno snodo decisivo del pensiero europeo, influenzando, per effetto domino, anche il modo in cui dobbiamo leggere la storia intellettuale successiva almeno fino al crollo dell’Antico Regime. Al servizio di un progetto tanto ambizioso Hankins ha messo un’impareggiabile familiarità con la letteratura neolatina del tempo. Dal 2001 dirige per la Harvard University Press la Villa I Tatti Renaissance Library, che ha reso accessibili quasi cento volumi del nostro Quattrocento, letteralmente rivoluzionando le conoscenze in materia. Eppure, in qualche modo, la relazione è reversibile: se Hankins ha “fatto” la collana de I Tatti, la collana de I Tatti ha “fatto” Hankins. La politica della virtù è insomma l’approdo di una lunga devozione alla cultura quattrocentesca in tutte le sue forme.
Che La politica della virtù sia destinato a venire discusso a lungo non significa che non valga la pena di cominciare a farlo subito. È soprattutto una delle tesi di Hankins a suscitare perplessità. Secondo lo studioso di Harvard, l’umanesimo politico sarebbe una forma di meritocrazia finalizzata a promuovere il governo dei migliori. Nonostante gli umanisti aprissero eccezionalmente le porte delle loro scuole a qualche ragazzo del popolo di particolare talento, la ricerca storica ci dice però che a beneficiare del loro curriculum di studi improntato alla assimilazione dei classici furono quasi unicamente i rampolli della classe dirigente del tempo. Ciò non deve sorprendere: ai cultori del mondo greco e romano, infatti, non interessava tanto selezionare i più meritevoli quanto rendere più degni dal punto di vista morale coloro che, per nascita, erano chiamati a prendere in mano un giorno le redini dello Stato – due cose, evidentemente, ben diverse. Nella pratica, attribuendo alla nuova pedagogia il potere di rendere i governanti virtuosi, gli umanisti finirono così per offrire soprattutto una potente legittimazione delle vecchie gerarchie in un momento di crisi dei grandi poteri universali del Papato e dell’Impero. E il rapido diffondersi in tutta Europa della nuova educazione classicizzante non è che il risultato della simpatia con cui la loro difesa dell’ordine tradizionale (su basi completamente inedite) venne accolta dai ceti dirigenti in un momento di eccezionale difficoltà.
La forzatura di Hankins non è casuale, dato che l’autore propone la teoria degli umanisti come modello per il nostro presente, sino a dichiarare la propria simpatia per una selezione del ceto politico compiuta attraverso la cooptazione dei “virtuosi”, un poco come nell’odierna dottrina neo-confuciana del Partito Comunista Cinese (esplicitamente evocata nella conclusione, Ex Oriente lux). Da Machiavelli in poi, l’Occidente avrebbe smarrito la sua strada sostituendo, come vincolo sociale, la paura della legge all’educazione alla virtù, secondo una grand narrative ispirata a quella tracciata alcuni decenni fa dal filosofo conservatore Leo Strauss: con la sola differenza che, mentre per Strauss Machiavelli rompe con Platone, Aristotele e Senofonte, per Hankins l’attacco del Principe e dei Discorsi prende di mira piuttosto i loro moderni discepoli, vale a dire gli umanisti. Indifferentemente per l’uno e per l’altro, è in ogni caso giunto il momento di riallacciare il filo con quella tradizione interrotta.
Le implicazioni elitiste del libro di Hankins sono evidenti. Non sorprende, perciò, che una delle obiezioni più solide alla virtue politics rimanga quella che agli umanisti rivolse un irriducibile sostenitore del governo popolare come Machiavelli: nessuna autoproclamata aristocrazia della virtù è davvero tale, dal momento che, con pochissime eccezioni, alla prova dei fatti «tutti equalmente errano» (cioè fanno il proprio interesse) «quando tutti sanza rispetto» (ossia impunemente) «possono errare». In altre parole, la terapia delle passioni della futura classe dirigente da sola non basta: come i famosi decemviri romani, tutti i gruppi chiusi, anche quando all’inizio sono animati dalle migliori intenzioni, in assenza di un controllo esterno non possono che trasformarsi rapidamente in un’oligarchia preoccupata di tutelare anzitutto i propri privilegi. Una casta, come direbbe qualcuno oggi.
La contesa, evidentemente, continua. E non ultima delle numerose qualità del libro di Hankins è appunto quella di mostrare quante cose uno scontro vecchio di oltre mezzo millennio abbia ancora da insegnarci.