Ilario Lombardo
Francesco Olivo
I soliti noti che Giorgia Meloni non nomina sono «giornali, poteri forti, sinistra», tutti quelli che, secondo la narrazione della destra, la vogliono sfrattare da Palazzo Chigi. A La Valletta, quando i lavori del vertice EuMed9 stanno per terminare, la premier si ritrova improvvisamente di fronte allo scenario della fine brutale e anticipata del suo governo. La reazione è in qualche modo una sorpresa, perché Meloni non dissimula, non svia, non fa mostra di non essere sfiorata da ipotesi e voci che si accumulano in queste ore, come mille altre volte nelle tormentate disavventure degli esecutivi italiani. Ha letto La Stampa, i titoli e gli articoli sui movimenti in atto. È la prima a crederci, e sembra quasi prepararsi alla rivalsa dell’underdog: «L’ho ripetuto mille volte. Non sosterrò nessun governo tecnico. Per me si torna a votare», è il concetto che ha ribadito ancora in queste ore, nel viaggio a Malta. E nel partito la linea è questa: nella legislatura in corso non ci sarà un altro premier. Lo spread d’altronde evoca altre stagioni e il fatto che nell’aria circoli il nome di Fabio Panetta, l’ex membro del comitato esecutivo della Banca centrale europea che Meloni non è riuscita a nominare ministro dell’Economia, è di per sé un elemento di insidia, magari più percepita che vera. Meloni sa che la formula tecnica è una costante delle crisi italiane, ma anche che questa volta quell’epilogo appare più difficile, perché la destra ha una maggioranza che complica le alchimie numeriche di palazzo ed è storicamente più abile a compattarsi. Per Fratelli d’Italia è un punto fermo che sfocia nell’ossessione: del resto la convinzione ferma di Meloni è che parte del suo successo si debba al fatto di aver detto no al governo «tecnico e tecnocratico» di Mario Draghi e prima ancora all’esperimento giallo-verde, quando tutti i sondaggi dicevano che gli elettori di destra vedevano con favore una partecipazione alla maggioranza populista di quello che allora era un piccolo partito.
Detto questo, la premier crede che qualcosa si stia muovendo. Scorre le cronache, i retroscena e prova interpretare i segnali, «so leggere la politica». Gli articoli del Financial Times, ripetuti, ormai a cadenza fissa, che hanno messo nel mirino le scelte del governo Meloni, le fragilità del sistema, i ritardi sul Pnrr e le faticose strade per trovare una via d’uscita dall’enorme debito pubblico. Il ruolo europeo di Paolo Gentiloni e la convocazione al Quirinale di Sergio Mattarella, all’indomani degli attacchi della premier, letta come una scelta del presidente della Repubblica di difendere il commissario, è un altro elemento che contribuisce a costruire un castello di ombre. L’offensiva contro Gentiloni, partita nei giorni scorsi da Fratelli d’Italia, d’altronde si spiega così: l’attivismo dell’ex premier del Pd, con tanto di presenza alle feste dell’Unità, lasciava intendere, secondo le analisi fatte a Palazzo Chigi, un suo impegno politico (ostile, ovviamente) e quindi il segnale è stato mandato.
Poi lo spread. È su questo indice di salute dell’economia italiana che Meloni concentra le sue preoccupazioni. L’incubo di quanto successo al governo Berlusconi nel 2011 è sempre presente: quelle tensioni sui mercati che sembrano il preludio a un terremoto politico, e una legge di Bilancio prosciugata delle risorse sufficienti a placare l’opinione pubblica. Meloni ha bisogno di deficit, e quindi ha bisogno dell’Europa. A cui però dovrà concedere una capitolazione, in particolare sulla riforma del Mes.
Nel frattempo la tecnica rimane la solita: mettere le mani avanti e cercare un nemico. Un giorno è la Germania, «che non vuole un governo di centrodestra», l’altro sono i giornali e oscure forze della finanza internazionale. Ufficialmente si ostenta sicurezza: Giovanbattista Fazzolari, ascoltatissimo consigliere e sottosegretario alla presidenza del Consiglio, spiega di non aver paura di qualcuno che vuole far cadere il governo («non li sopravvalutate») e racconta così lo stato d’animo che si vive a Palazzo Chigi: «Nessun complotto, nessuna preoccupazione – precisa -. Solo un divertito stupore per questi disperati tentativi di mettere in difficoltà il governo. Dà l’idea del bambino che sbraita. A noi va benissimo». Un riferimento implicito ai giornali che hanno raccontato l’allarme per l’andamento dello spread.
Sin dai primi giorni, quando i numeri in Parlamento si mostravano rassicuranti, i colonnelli di Meloni ragionavano: «Solo i giudici o un fattore esterno possono farci cadere», una profezia che nella sua seconda parte qualcuno crede di scorgere. Tra questi non c’è Claudio Borghi, uno di quelli che nella Lega parla chiaro (fin troppo, a volte) alla ricerca di movimenti sospetti degli avversari, il quale analizza: «Le opposizioni sono messe male e forse proprio per quello ecco che esce la storia del governo tecnico, l’unica alternativa che vedono i nostri nemici è questa. Con il Conte 2 il piano B era pronto sin dall’inizio della legislatura. Stavolta non è realistico lo scenario». In ogni caso, dice Borghi, la Lega non ci starebbe: «Noi abbiamo dato e pagato da un punto di vista elettorale e, avendo visto cosa è successo alla cavia, non credo che Meloni si presti».