Carri armati contro tagliagole. Esercito contro terroristi. Chi vincerà? Per chi fai il tifo sugli spalti? Di chi hai la maglietta? Sembra Risiko, con la differenza che i morti sono veri, e non si rialzano. Con il pretesto di Halloween, la nostra indagine sul comune senso dell’orrore si soffermerà oggi su questo, sul paradosso che fa della morte un gioco. Presupposto essenziale dell’egemonia umana sul pianeta è d’altronde la concezione del presente come un grande parco divertimenti in cui ci riserviamo di scegliere se metterci alla prova con il tirassegno, scuoterci d’adrenalina sulle montagne russe, intenerirci ai salti dei delfini nell’acquario o farcela addosso nella Casa del Terrore. Siamo comunque noi e sempre solo noi, a decidere. Stabiliamo se siamo predisposti (e soprattutto ben-disposti) ora per tremare, ora per gareggiare, ora per commuoverci o perfino per odiare, cliccando sull’icona dei social che spesso equivale all’on-off dello sfogo e del livore. Sostenuti dalla fiducia incrollabile in una tecnologia onnipotente che nutre il nostro senso di supremazia, non riusciamo però ad accettare l’idea che la morte sia rimasta l’unica avversaria insormontabile, tanto più spregevole nella misura in cui decide lei per noi, senza interpellarci.
Certo, dall’ultimo Dopoguerra in poi abbiamo visto crescere le garanzie e le protezioni delle scienze mediche, capaci adesso di promettere all’Occidente il fatidico innalzamento della “speranza di vita alla nascita”, punto a nostro favore nell’eterno game Life contro Death, infinite volte tradotto dall’arte nei più diversi scenari, da Orfeo e Euridice fino agli scacchi di Ingmar Bergman. Ma questo acquisito vantaggio non toglie che la morte resti la massima incognita, di cui non accettiamo lo strapotere, al punto tale che si moltiplicano le cause legali intentate contro gli ospedali da chi vi vede perire un familiare: al di là delle inefficienze, è oggettivo che in quella proliferazione di carte bollate si celi anche un’incapacità di ammettere la morte come plausibile evenienza biologica, e non come l’accidentale esito di un errore.
Ne discende che la cultura in cui viviamo ha attivato una chiara forma di rimozione, e per esempio è impensabile che i bambini vengano oggi ammessi alle veglie funebri, dove viceversa erano tenuti a presenziare nell’antica società contadina, spesso chiudendo loro stessi gli occhi ai cadaveri (oggi si griderebbe al trauma chiamando subito il Telefono Azzurro). La scomparsa dei congiunti viene quindi camuffata ai piccoli con perifrasi del tipo «nonno è andato a fare un lungo viaggio» oppure «ha deciso che ti starà vicino in modo diverso», in una specie di grande sceneggiata che procrastina la verità al poi, al dopo, all’età in cui sarai pronto. Ecco, appunto: quando sarai pronto? Forse mai.
E da adulto la negazione della morte si tramuterà semplicemente nel farne un gioco, sdrammatizzandola a oltranza come per bullizzarla, laddove per bullismo si intende l’annullamento della dignità, e la conversione della vittima in feticcio per ostentare forza. Ne tanyahu grida che «Hamas conoscerà stanotte la nostra rabbia», e con questi toni da Braveheart o da Signore degli Anelli rilancia l’ennesimo massacro ammantandolo di ardore cinematografico, salvo omettere che i razzi sono veri e i civili non hanno stuntmen. Ma fa parte della grande farsa in cui la morte è sempre il fattore censurato di un bellissimo reality show in cui conta parlare, esporsi, commentare e strappare voti al grande televoto dell’empatia. Mi ha colpito leggere sui social il messaggio di un utente filo-Hamas che parlando di Israele scriveva testualmente: «Hanno a credito milioni di morti della Shoah, e se li spendono così», mentre un esimio putiniano tuonò in tv che i razzi su Mariupol erano «un pareggiare i conti, per cui ci sta». Voilà, benvenuti a Thanatoland, il bellissimo Paese dei Balocchi dove la morte è un flipper, l’Olocausto una giostra, il massacro di Bucha un teatrino di marionette, e ci possiamo divertire un sacco a far saltare in aria ospedali rimpallandoci la responsabilità come a ping-pong, oppure simulare stragi col sangue finto e il succo di pomodoro, poi cadi a terra e ti rialzi un attimo dopo, appena ti hanno scattato la foto in cui sembri proprio cadavere, e vedrai quanti like! Wow, che sballo giocare con la morte come a moscacieca, arrotolarsi le bandiere sulla fronte come fossero bandane, e ridere come matti sproloquiando di Crimea, di Donbass, di Gaza, di Auschwitz e di Nato, di Ramallah, di lager, di Isis, di kibbutz e di qualsiasi cosa tanto quel che conta è che muoiano gli altri (se invece muoio io la cosa è d’un tratto serissima, e i miei parenti chiederanno i danni al chirurgo, agli infermieri e pure al barelliere).
Qui il cerchio si chiude. Perché c’era una volta, migliaia di anni fa, l’antico rito celtico in cui si esorcizzava l’avvento delle tenebre invernali, si chiamava Samhain. Ma anche alle nostre latitudini esisteva qualcosa del genere, arcaicamente legato al ciclo dei campi, per cui anche in Giovanni Verga troviamo una novella intitolata La festa dei morti .L’eccezionalità stava nel fatto che in quella vigilia di Ognissanti si osava sorridere sul commiato, concedendosi l’azzardo liberatorio di giocarvi sopra per il tempo di una notte, consapevoli che all’alba del giorno dopo la licenza sarebbe rientrata, lasciando il posto alla realtà e ai suoi perimetri… Mi spieghi quindi qualcuno che senso ha adesso Halloween, se tutto intorno la morte è un cabaret.