Le Burkina Faso va recruter 50 000 volontaires pour renforcer la lutte de l’armée contre le djihadisme
26 Ottobre 2022“L’Italia era bellissima”. Ma oggi ha l’urgenza della linea rossa
26 Ottobre 2022L’8 luglio 2020, mentre milioni di persone si attaccavano ai videogiochi per sfuggire alla monotonia del lockdown, la squadra di e-sport dell’esercito statunitense trasmetteva in streaming Call of Duty: Warzone su Twitch. Un attivista di Washington entrò nella chat in streaming, e chiese «Qual è il tuo w4r cr1me? [sic] preferito degli Stati uniti?», con un link a un articolo di Wikipedia sui crimini di guerra statunitensi. Venne immediatamente bandito dalla chat.
L’episodio ebbe rilevanza nazionale, anche la deputata Alexandria Ocasio-Cortez promosse una legge per vietare ai soldati di utilizzare Twitch per reclutare. La misura in gran parte simbolica di Aoc non ha avuto effetti. Ma l’incidente ha contribuito a mettere in evidenza lo stretto rapporto di lavoro che esiste da decenni tra l’esercito statunitense e l’industria dei videogiochi.
Mentre Hollywood ostenta il suo rapporto con l’esercito, i game studios tendono a essere timidi, preferiscono tacere sulla loro collaborazione con la più grande macchina da guerra del mondo. I game designer utilizzano consulenti militari per la progettazione della storia e dei livelli al fine di dare ai giochi un senso di «autenticità», in particolare nel genere degli sparatutto tattici. Per l’esercito i giochi sono strumento di reclutamento e propaganda. A volte questa propaganda è smaccata. Più spesso è sottile, come quando i consulenti aiutano a plasmare la narrazione di giochi di successo come Call of Duty.
I grandi sparatutto in soggettiva come Call of Duty, divenuti sinonimo di gaming, sono estremamente redditizi. La serie Call of Duty conta più di 30 miliardi di dollari di entrate totali e i vari giochi a marchio Tom Clancy hanno venduto circa settantasei milioni di copie. In genere esaltano il soldato solitario, che risolve i problemi del mondo con il suo fucile d’assalto e gettano una luce favorevole anche sulle attività militari più sospette. Con centinaia di milioni di giocatori in tutto il mondo, sono una costante pubblicità della potenza militare statunitense.
Propaganda di guerra
Dai centri di ricerca accademici alla progettazione di simulazioni di addestramento e giochi di guerra negli anni Ottanta, l’esercito statunitense ha contribuito a sviluppare le basi del gioco. Oggi, l’esercito aiuta attivamente a plasmare l’arte e il design dei giochi. I videogiochi sono un mezzo sempre più popolare: le entrate del settore sono cresciute costantemente per un decennio, ma sono aumentate del 23% nel 2020 rispetto al 2019 e probabilmente raggiungeranno i 222 miliardi di dollari nel solo 2022 e i militari vogliono assicurarsi che la loro rappresentazione sia positiva.
Questo desiderio ha portato nel 2002 al lancio della serie America’s Army, uno sparatutto free-to-play che ha cercato di sfruttare la popolarità del genere sparatutto militare. Il gioco, pubblicato all’inizio della cosiddetta «guerra al terrore», era un semplice pezzo di propaganda progettato per reclutare giocatori da arruolare nell’esercito degli Stati uniti. Quando è stato finalmente chiuso, nel maggio 2022, aveva raggiunto circa venti milioni di giocatori.
Da ogni punto di vista, tuttavia, la serie impallidiva rispetto alle sue ispirazioni, Call of Duty e Battlefield. Questi colossi del mondo dell’intrattenimento commerciale raccontano storie di conflitti armati incentrate sul valore e sull’eroismo. Call of Duty: Black Ops Cold War è arrivato al punto di includere Ronald Reagan, raffigurandolo come uno sparatutto disposto a piegare le regole del diritto internazionale al servizio degli «uomini e donne liberi del mondo». Nella prima puntata della serie i giocatori venivano spediti in missioni segrete in America Latina grazie anche al lavoro di consulenza di Oliver North colonnello caduto in disgrazia e figura chiave nel sordido coinvolgimento degli Stati uniti in Nicaragua negli anni Ottanta.
Il prossimo sparatutto, Six Days in Fallujah, promette di essere più fedele alla realtà della guerra. Ambientato durante la seconda battaglia di Fallujah, il gioco è una drammatica rivisitazione del conflitto più sanguinoso dell’invasione statunitense dell’Iraq e, per certi versi, un tipico sparatutto militare. Come Call of Duty, equipaggia i giocatori con armi realistiche e chiede loro di avanzare attraverso le missioni in un campo di battaglia virtuale.
Da un altro punto di vista, il gioco contiene valori anomali e ha avuto feroci critiche e opposizioni. Fallujah, dopo tutto, è stata il luogo della battaglia più letale nell’invasione dell’Iraq. Si stima che circa milletrecento soldati siano stati uccisi su entrambi i fronti e che ottocento civili siano morti nel fuoco incrociato. Le forze Usa hanno impiegato munizioni al fosforo bianco, un’arma incendiaria che brucia la carne umana fino alle ossa. Il luogo di tali atrocità è poi diventato l’ambientazione di un genere di videogiochi noto per la sua poca sottigliezza.
Gli sviluppatori che stanno dietro gli sparatutto militari affermano che la loro arte è un compromesso tra finzione e autenticità. Sviluppatori e autori sono anche terrorizzati dalle cattive pubbliche relazioni e insistono sul fatto che i loro giochi siano apolitici. Quanto al rapporto della sua azienda con Oliver North, Mark Lamia, il capo-sviluppatore di Call of Duty Treyarch, ha dichiarato: «Con il nostro videogioco non vogliamo fare una dichiarazione politica. Stiamo cercando di creare un’opera d’arte e di intrattenimento… Per noi averlo incontrato mentre stavamo creando la nostra narrazione è del tutto appropriato».
Toccando corde simili, Peter Tamte, Ceo dell’azienda che produce Six Days in Fallujah, ha detto a Polygon che il gioco parla di empatia e comprensione. «Non stiamo cercando di fare un commento politico sul fatto che la guerra sia stata una buona o una cattiva idea – ha detto – Si tratta di aiutare i giocatori a comprendere la complessità del combattimento urbano. Riguarda le esperienze di quell’individuo che ora è lì a causa di scelte politiche».
La guerra può essere divertente
Ci sono ragioni per essere scettici quando gli sviluppatori affermano che i loro giochi sono apolitici. In effetti, la struttura stessa dei moderni sparatutto tattici, in cui il giocatore avanza nel gioco spostandosi in un territorio ostile e uccidendo nemici (spesso marroni), serve a normalizzare l’ordine mondiale imperialista.
Come spiega Jamie Woodcock in Marx at the Arcade, gli sparatutto a tema militare «sono vissuti attraverso la prospettiva in prima persona, consentendo ai giocatori di» vedere «la guerra, non solo attraverso occhi virtuali, ma anche principalmente dal punto di vista dell’imperialismo americano. Sebbene i giocatori possano codificare e decodificare queste esperienze in modi diversi, a tutti viene chiesto in qualche modo di riflettere e agire sull’ideologia del conflitto militare e dell’imperialismo».
Un gioco ben progettato getta quell’ideologia in una luce favorevole, divertente. La politica di un gioco non ha bisogno di essere esplicita per essere efficace. I giochi in stile militare aiutano a creare un senso comune sull’uso della forza da parte dello stato. I giocatori esercitano un controllo quasi totale su come il protagonista si muove nel mondo virtuale e le conseguenze del fallimento sono limitate e di breve durata. Il mezzo offre ai giocatori una fantasia di azione militare idealizzata, cementando determinati atteggiamenti su come una moderna potenza imperiale conduce la guerra, oscurando l’orrore e la devastazione del mondo reale che ne derivano.
L’equipaggiamento realistico e le tattiche di franchise come Call of Duty hanno lo scopo di facilitare un gameplay coinvolgente. In una puntata recente, gli sviluppatori hanno utilizzato una sofisticata tecnologia di scansione 3D per tradurre oggetti del mondo reale in copie digitali. Gli sviluppatori hanno attinto all’esperienza degli ex Navy Seal per garantire la massima precisione. Il risultato, Call of Duty: Modern Warfare, ha segnato sia un risultato tecnico degno di nota, sia un nuovo livello di sofisticata propaganda militare sotto forma di videogiochi.
Non vuol dire che i giochi non siano divertenti. Al loro meglio, i capitoli di Call of Duty hanno meccaniche di gioco rigorose che premiano l’abilità. Identificare ed eliminare rapidamente i nemici, spostarsi in posizioni strategiche sulla mappa e acquisire nuove abilità e armi sono cose divertenti. Come sostiene Woodcock, «Questo potente ciclo di feedback ha attirato un vasto pubblico per giocare ai giochi Fps… È un’esperienza che raramente si ritrova in altre forme di cultura contemporanea». La trama e la politica di un gioco contano meno nel gameplay multiplayer, che in genere è molto più popolare della campagna per giocatore singolo.
Ma indipendentemente dalla politica degli sviluppatori, i giochi sulla guerra sollevano inevitabilmente questioni politiche. Come i film e i libri prima di loro, i videogiochi sono diventati un mezzo importante attraverso il quale milioni di persone sperimentano la creazione di miti e la memoria collettiva. Due decenni dopo le invasioni americane dell’Afghanistan e dell’Iraq, i creatori di videogiochi, intenzionalmente o meno, stanno anche raccontando una storia su come la società dovrebbe ricordare quelle guerre e i motivi che le hanno guidate.
Forse è vero che Six Days in Fallujah è progettato per aiutare i giocatori a entrare in empatia con i soldati raffigurati nel gioco. Ma l’empatia ha sempre una dimensione politica. Cosa significa entrare in empatia con gli invasori in una guerra iniziata con false pretese? E cosa dice della nostra preoccupazione per le principali vittime della guerra, il popolo iracheno?
Un altro wargame è possibile
Non c’è nulla di intrinsecamente sbagliato nell’esplorare la guerra in un videogioco, né tutti i giochi di guerra sono necessariamente propagandistici. This War of Mine, dello sviluppatore polacco indipendente 11 Bit Studios, utilizza brillantemente le meccaniche di gioco di sopravvivenza per rappresentare la vita dei civili nel bel mezzo della guerra urbana. Bury Me, My Love è un gioco per cellulare che mette i giocatori nei panni dei rifugiati in fuga dalla Siria mentre cercano di mantenere i contatti con i propri cari lasciati indietro.
Lo stesso genere di sparatutto militare può essere utilizzato per esplorare le realtà più oscure della guerra e sovvertire i messaggi pro-militari impliciti in gran parte del genere. Nel 2012, lo studio di sviluppo tedesco Yager e l’editore 2K hanno rilasciato Spec Ops: The Line. In apparenza, il gioco sembra simile ad altri sparatutto in prima persona. I giocatori assumono il ruolo del Capitano Walker, un protagonista che guida una squadra d’élite di forze speciali americane in una missione di salvataggio e ricognizione in una Dubai post-apocalittica. La missione, tuttavia, prende una svolta oscura mentre Walker si spinge più in profondità nella città, uccidendo la maggior parte delle persone che la squadra incontra, compresi i civili. Inoltrandosi nella follia, il gioco diventa frenetico e allucinatorio.
Spec Ops: The Line è stato rivoluzionario nel modo in cui ha utilizzato le meccaniche di gioco e la narrazione per presentare una critica convincente al genere di sparatutto militare. Ispirato al classico film contro la guerra Apocalypse Now, il gioco esplora i reali effetti psicologici della guerra su coloro che uccidono e indaga cosa significa per i videogiochi offrire simulazioni superficiali di questa violenza. Il gioco rompe regolarmente il quarto muro, ponendo al giocatore domande provocatorie come «Ti senti già un eroe?».
Nonostante tutto il presunto realismo dei giochi sparatutto militari, la loro esplorazione della guerra è incompleta e non autentica. Si concentrano ossessivamente sulla replica degli strumenti e delle tattiche di guerra senza preoccuparsi di riflettere sul perché o su come la guerra possa cambiare qualcuno in peggio. Confronta questo con l’approccio dello scrittore principale di Spec Ops Walt Williams, che ha assistito a come gli amici e la famiglia nell’esercito sono stati cambiati dalla guerra: «Vederli tornare e vedere le piccole differenze tra loro, interpretare gli sparatutto militari mi è sempre sembrato un po’ strano, perché non restituitiva ciò che le persone che conosco hanno effettivamente passato».
Al di fuori del design e dell’estetica del gioco, il ruolo dei militari può anche essere contestato in modo materiale. I sindacati stanno finalmente prendendo piede nel settore dei giochi, offrendo ai lavoratori più leve per respingere pratiche e relazioni discutibili. I tech workers di Google hanno organizzato uno sciopero nel 2018 per protestare contro il coinvolgimento del gigante tecnologico in un programma di intelligenza artificiale del Pentagono. Un anno prima, i lavoratori di Facebook, Intel e Google si sono uniti a una manifestazione al di fuori della società di analisi dei dati Palantir, per protestare contro la partnership dell’azienda con l’ufficio di immigrazione e dogana nell’era di Donald Trump. Non c’è motivo per cui i lavoratori e le lavoratrici del settore non possano seguire l’esempio, interrompendo o limitando il ruolo che i militari svolgono nel settore.
Con i videogiochi più popolari che mai, la collaborazione in corso tra i militari e i game studios dovrebbe attirare l’attenzione di chiunque sia interessato alla crescente militarizzazione del mondo. Fortunatamente, il coinvolgimento militare non contamina in modo indelebile i giochi in senso reazionario. Non sorprende che, in una società dominata dal complesso militare-industriale, i militari svolgano un ruolo fuori misura nella strutturazione dei giochi. Che le cose rimangano così dipenderà dalle persone il cui lavoro rende possibili i videogame e dai milioni di giocatori i cui soldi fanno andare avanti la produzione.
* Laura Bartkowiak è attivista, data analyst, e scrittrice. Vive a New York. Brian J. Sullivan si occupa di sindacato e diritto alla casa, anche lui vive a New York. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.