Nella regione ferita L’organizzatore della Festa della Diversità: “Macchiata dal sangue ma non rinunceremo al nostro modello e alla nostra allegria”
SOLINGEN — Ilke Werner non risparmia neanche Dio. «Abbiamo saputo che il colpevole si è consegnato alla polizia. È un inizio. Ma non è una risposta». La pastora protestante nontrattiene una rabbia fredda, neanche dal pulpito della predica domenicale. Venerdì sera è stata tra le prime ad accorrere sul luogo della mattanza, a consolare i parenti delle vittime, i credenti scioccati, i suoi concittadini sgomenti. «Rovesciamola ai piedi di Dio la nostra paura, la nostra disperazione, la nostra rabbia», tuona nella chiesa strapiena, ai tanti fedeli che non riescono a trattenere le lacrime. Voleva parlare di Adamo ed Eva, racconta, con il suo bel volto severo, incorniciato da una lunga chioma di capelli bianchi. «Volevo dirvi dei primi uomini, dell’arrivo nel mondo della gelosia e della violenza. E invece ho ricevuto una telefonata, venerdì sera, e tutto è cambiato. Anche questa predica».
Sul sagrato, dopo la messa, la comunità ferita di Solingen si stringe attorno a lei e a Philipp Mueller, l’altro protagonista della tragedia di venerdì, l’organizzatore della “Festa della Diversità”. Parecchi vogliono stringergli la mano, lo ringraziano, lo abbracciano. La sera dell’attentato, dopo aver visto i cadaveri in una pozza di sangue, dopo aver ricevuto l’allarme di un attentatore ancora a piede libero, è salito sul palco e ha addomesticato la paura di tutti. È riuscito a trovare le parole giuste, a far defluire tutti dalla piazza, senza creare panico. «E ora sto già organizzando la festa dell’anno prossimo», svela aRepubblica . Ci tiene a dire che «non dobbiamo rinunciare al nostro modello di vita liberale, democratico, alla nostra allegria. Dobbiamo restare uniti. Io sono uno stronzo liberal-socialista. E non mi farò piegare da uno stronzo islamista».
La verità è che l’attentato dell’Isis ha risvegliato i vecchi fantasmi nella città industriale a metà strada tra la Ruhr e la Renania. Nella città operaia, governata da un sindaco socialdemocratico, è riaffiorato lo spettro di una piaga assurta alle cronache una decina di anni fa, all’apice della crisi dei profughi, nell’era del «ce la faremo» di Angela Merkel. Allora era emerso un mondo parallelo, in questa fetta di Germania operosa, dove i migranti si avvicendano da almeno due secoli, dai polacchi della rivoluzione industriale ai siriani scappati dalla guerra civile: quello, segreto, delle comunità radicali degli islamici salafiti.
L’ultima ondata di profughi si è ammalata in parte di estremismo e si è mescolata ai turchi di seconda, persino terza generazione, che non si sono mai sentiti accettati nella società tedesca. Ragazzi sedotti dalle moschee dei predicatori radicali o riconvertiti all’Islam terroristico da internet. I rapporti di una decina di anni fa del ministero dell’Interno avevano definito proprio Solingen «la roccaforte dei salafiti in Germania», insieme alla vicina Wuppertal, dove nel 2014 fece scandalo la scoperta che i jihadisti avessero istituito una polizia per l’applicazione della sharia.
Nel 2018 un rapporto della Centrale federale per l’educazione politica (Bpb) aveva fotografato l’inarrestabile ascesa del fenomeno dei salafiti in Germania: dai circa 3.800 fanatici era lievitato a quota 11.000 in soli sette anni, concentrato soprattutto nei giovanissimi. Il politologo Ulrich Kraetzer scriveva già allora che la popolarità di questo orientamento radicale dell’Islam si spiegava soprattutto così: «Perché cercano un’identità condivisa, perché soffrono per una mancanza di integrazione nella società». Insomma, nella loroconversione all’Islam estremo, l’ideologia contava meno «del senso di appartenenza a una comunità».
A Solingen molti non vogliono arrendersi al fatto che una parte dei migranti sia stata inghiottita dal fondamentalismo islamico. E neanche che la destra estrema dell’Afd stia cavalcando l’attentato per fare propaganda xenofoba. Alle cinque di pomeriggio ben due manifestazioni sfilano per le vie del centro, una organizzata dai marxisti-leninisti, l’altra intitolata “No all’islamismo, no al fascismo”. Non vogliono lasciare la piazza all’Afd, che ne ha annunciata una terza, il cui cinico motto è “Remigration rettet Leben, “le deportazioni di massa salvano vite”.
Nella Goerdelstrasse, davanti al centro di accoglienza dove viveva l’attentatore, non si muove invece una foglia. Due poliziotti presidiano l’ingresso per tenere lontani i giornalisti. Solo se un profugo esce a prendere una boccata d’aria gli concedono qualche minuto con la stampa. E le risposte si assomigliano tutte. Non vogliono che si citi il loro nome, ma, assicurano, «siamo addolorati per quell o che è successo». Un siriano che chiameremo Mohammed è più scosso di altri. «Le sembrerà patetico, ma io sono scappato dalla guerra civile. E venerdì, quando ho sentito gli elicotteri e tutte quelle sirene, ho avuto un momento di panico, mi sono sentito precipitare nel clima di terrore che ho vissuto in Siria ». Gli trema il mento, fa fatica a non piangere: «io non voglio avere nulla a che fare con gli estremisti, glielo giuro. Io sono scappato qui in Germania anche da loro. Qualcuno mi crederà?».