Biden and Ramaphosa vow to strengthen US-South Africa ties
17 Settembre 2022I progetti del Pnrr sull’idrogeno sono in mano ai big dell’oil&gas
17 Settembre 2022Il grande regista scomparso a 92 anni non aveva mai smesso di sperimentare e di cercare nuovi linguaggi. Oltre che di criticare la sinistra, da dentro
Alle tante immagini in movimento che Jean-Luc Godard ha consegnato alla storia del cinema si sono aggiunte due anni fa, in piena pandemia, quelle di una diretta su Instagram organizzata il 7 aprile 2020 dall’Ecal, la Scuola di arte e design di Losanna. Chi lo aveva seguito per un’ora non aveva potuto non provare una certa tenerezza per il modo in cui il Maestro franco-svizzero, classe 1930, aveva affrontato l’ennesima prova della modernità.
Erano passati due anni dalla sua ultima regia, Le livre d’image (disponibile gratuitamente su RaiPlay). Un film di montaggio che utilizzando gli archivi diventa un atto d’amore nei confronti dell’arte cui Godard si era dedicato dapprima come critico – insieme a Rohmer, Rivette, Chabrol e Truffaut era stato tra gli autori dei Cahiers du cinéma – per poi approdare alla regia e alla sceneggiatura di cortometraggi nel 1952. Con un articolo-manifesto (Su una certa tendenza del cinema francese) uscito due anni più tardi Truffaut aveva poi messo nero su bianco l’insofferenza di questo gruppo di giovani frequentatori di circoli culturali parigini per il cinema della generazione precedente, a cui ognuno di loro avrebbe risposto creando opere tuttora amate e analizzate in tutto il mondo, senza vergognarsi di preferire certi film di Hollywood rispetto ad altri prodotti in patria. Soprattutto quelli di Hitchcock. La Nouvelle Vague nasceva quindi da un gesto di rottura; dev’essere stato tremendo per questo gruppo geniale registrare il decadimento dell’industria culturale che ha portato negli ultimi anni un nuovo scontro, di tutt’altra natura, tra gli attuali critici dei Cahiers e la nuova proprietà: diversi produttori che con l’acquisizione della testata vorrebbero limitare la possibilità di far circolare tramite la rivista di settore più prestigiosa al mondo recensioni negative dei film che hanno finanziato.
L’influenza dei registi della Nouvelle vague anche fuori dall’Europa è testimoniata da numerosi tributi e citazioni. Tra tutti quello di Quentin Tarantino, che ha chiamato la sua casa di produzione Bande à part, come il titolo del film del 1964 (in italiano Fino all’ultimo respiro) con Jean Paul Belmondo e Jean Seberg, il cui primo soggetto, poi rielaborato, era stato scritto da François Truffaut. Successo di critica e pubblico, viene omaggiato in Pulp Fiction, così come in The Dreamers di Bernardo Bertolucci, in Visages, villages di Agnès Varda e JR, in alcuni videoclip (Un romantico a Milano dei Baustelle, ad esempio) e persino in un numero di Topolino. La scena indimenticabile di Bande à part è quella in cui i protagonisti Anna Karina, Sami Frey e Claude Brasseur compiono una visita lampo al museo del Louvre, correndo tra le sue sale, inseguendo nient’altro che la propria libertà.
Se quella di Godard è un’arte che vuole essere libera e combattere l’ipocrisia, lo è anche la volontà emersa nelle ultime ore di autodeterminarsi compiendo a 91 anni il suicidio assistito. Il cineasta viveva a Rolle, un comune di circa seimila abitanti sul lago di Ginevra. La Svizzera è uno dei pochi paesi dove questa pratica non è vietata dal Codice penale (ed è possibile anche per i non residenti), mentre in Francia la volontà di riformare a breve il quadro giuridico in merito è stata ribadita dal presidente Macron proprio lunedì. Godard «non era malato, ma era solamente esausto», ha detto una fonte a lui vicina, specificando che «era importante per lui che questo si sapesse». Nel chiederlo avrà forse pensato a come in tempi recenti alcuni hanno tentato di occultare scelte simili compiute da colleghi come Mario Monicelli (che nel 2010 si gettò nel vuoto da una stanza d’ospedale) e Carlo Lizzani (che si tolse la vita gettandosi dal balcone della propria abitazione tre anni dopo Monicelli).
Godard pensava molto all’Italia anche prima della sua consacrazione, ed è proprio qui che medita di fuggire il ladro protagonista di Fino all’ultimo respiro, il film-manifesto della stagione di rinnovamento aperta dalla Nouvelle vague. I film più politici arrivano qualche anno dopo. Il critico Antoine de Baecque ha scritto di lui: «Il desiderio di impegnarsi politicamente e quello di evadere dal supermercato culturale di cui è il prodotto numero uno sembrano essere i due movimenti paralleli che, tra l’autunno del 1966 e l’autunno del 1967, trasformano da cima a fondo l’itinerario di Jean-Luc Godard».
Ne La cinese – vincitore del Leone d’Argento alla Mostra del Cinema di Venezia e ispirato al romanzo di Paul Nizan La cospirazione – i protagonisti sono dei giovani maoisti che vivono a Parigi, nel presente, dunque alla vigilia di quel cambiamento epocale che fu il Sessantotto. Sono tre ragazzi e due ragazze, tutti iscritti all’università. Appare di tanto in tanto un altro personaggio, più colto, di nome Omar ma soprannominato «Compagno Xo», che nella realtà è Omar Blondin Diop, un attivista senegalese che animò davvero la capitale francese in quegli anni, per poi essere detenuto in Senegal in quanto oppositore del regime di Senghor, fino a quando nel 1973, a soli 26 anni, si impiccò nella sua cella.
Nel 1967, quando esce La cinese, il Libretto rosso di Mao è uno dei libri più venduti in Francia (e oggi rimane il più venduto al mondo dopo la Bibbia) ed è l’unico che possiamo individuare nell’appartamento condiviso dai protagonisti, i quali discutono di come sovvertire lo status quo arrivando alla decisione di impegnarsi nella lotta armata fino alle estreme conseguenze. Se Yvonne e Guillaume inveiscono contro l’imperialismo degli Stati uniti, coinvolti nella guerra in Vietnam, Véronique incontra in un viaggio in treno il filosofo comunista Francis Jeanson, che aveva subito un processo per essersi dichiarato al fianco del popolo algerino in funzione antifrancese. Jeanson dice a Véronique che la lotta armata non porta niente di buono, ma questo non fa cambiare idea al gruppo che tenterà maldestramente di uccidere il ministro della cultura dell’Unione Sovietica.
La cinese potrebbe essere inserito nella lunga lista dei film che raccontano di come un’estate possa cambiarci per sempre. Qui Godard ci dice che se la contestazione e l’elaborazione politica sono fondamentali, come è adoperarsi per una rivoluzione culturale, pensare di poter applicare il maoismo in Europa con la stessa disinvoltura con cui si indossa un abito è utopico, poco credibile e infine sciocco. «La rivoluzione non è un pranzo di gala», recita una canzone che fa parte della colonna sonora. Un altro film in cui Godard racconta del rapporto tra i giovani e la politica (e la società dei consumi) è Masculin, féminin – ancora con Jean-Pierre Léaud – in cui accosta i ragazzi alla linea Marx e le ragazze alla linea Coca Cola. Oggi non funzionerebbe.
In una fase successiva, durata un triennio circa, la discussione politica diventa la trama principale dei film: nasce il Gruppo Dziga Vertov nel quale i nomi degli autori, per quanto non occultati, sono messi da parte per agire e agitare come un collettivo. È un cinema militante che prende di mira innanzitutto il capitalismo e la politica di palazzo.
Uno dei film realizzati in questa fase è Lotte in Italia: a partire da brevi testi scritti dal filosofo marxista Louis Althusser e con il coinvolgimento di Paola Taviani, militante extraparlamentare ripresa nel suo fare quotidiano, il film comprende un attacco ai media – e dunque alla Rai che manda in onda il suo intervento dopo aver commissionato e poi rifiutato il film – in quanto funzionali al sistema borghese. Ma Paola dovrà riconoscere che la coerenza non è che non un ideale cui tendere, perché quando lavoriamo siamo anche noi parte del sistema che contestiamo. Meno riuscito è un film che coinvolge l’attore più consapevolmente impegnato del cinema italiano, Gian Maria Volontè, insieme a Marco Ferreri, il quale aveva già diretto La donna scimmia ed era attivo in Lotta Continua. Il titolo è Vento dell’est e secondo alcune fonti avrebbe dovuto essere un «western gauchiste spaghetti», rielaborando quindi da sinistra il genere di grande successo all’epoca grazie a Sergio Leone e altri. Poco dopo Godard tenta il suicidio, venendo salvato da un amico. Il Gruppo Dziga Vertov ha ormai compreso che senza un cast di attori noti è davvero difficile rivolgere i propri messaggi politici a un pubblico ampio, e per questo con Crepa padrone, tutto va bene fa ricorso a Yves Montand e Jane Fonda. Il personaggio di Montand è simile a Godard, in quanto è un regista che in passato si era molto dedicato alla politica, i cui dubbi tornano a manifestarsi ora che con la giornalista interpretata da Jane Fonda segue la vertenza sindacale di una fabbrica di alimentari: Godard cerca di tirare le somme del Maggio francese, quanto meno per quanto riguarda il contributo dato dagli intellettuali, dall’élite.
Per quanto lo spettatore medio tenda ad accostarlo alla Nouvelle vague e a pochi titoli, quasi tutti diretti prima degli anni Ottanta, Godard non ha mai smesso di sperimentare e ricercare attraverso diversi linguaggi, dimostrando interesse anche per le nuove tecnologie. Riassumere la sua traiettoria sarebbe quasi un’ingiustizia, così come sintetizzare il suo rapporto con la sinistra, che lo vide sempre partecipe e critico, nelle piazze ma anche ai festival, compresi quelli italiani (Venezia e Pesaro, innanzitutto) dove si confrontò con colleghi quali Elio Petri, Pier Paolo Pasolini, Ettore Scola, Libero Bizzarri, Alberto Grifi e Giuliano Montaldo, come ricordato ieri dall’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico che ha sede a Roma. E lo abbiamo sentito vicino quando per aver espresso solidarietà alla causa palestinese è stato ingiustamente bollato come antisemita – un fatto ricordato dopo la sua morte soprattutto da testate a larga diffusione in Medio Oriente.
Fa una certa impressione vedere il nome di Godard uscire dalla bocca dell’attuale presidente francese Emmanuel Macron, che tra le varie cose nel 2020 ha tentato di far approvare una legge che avrebbe colpito registi e giornalisti: il tema era la «sicurezza globale» e il fine quello di impedire la diffusione delle immagini registrate dalle body cam degli agenti di polizia, insomma un attacco e un avvertimento nei confronti di chi denuncia la violenza di stato e lotta per esercitare la libertà di stampa e di espressione al servizio della collettività. Un altro momento che Macron ricorderà bene è l’appello che lo scorso anno Godard e altri esponenti della cultura gli hanno indirizzato tramite Libération, chiedendo di non consegnare all’Italia gli esiliati politici dei quali si sollecita l’estradizione perché accusati di atti di terrorismo negli anni Settanta e Ottanta.
Comunque la si pensi, la capacità di Godard di criticare la sinistra da dentro – e quindi di fare anche autocritica – è una qualità che ha reso il suo cinema ancora più significativo, ed è forse l’unica in cui possiamo desiderare di assomigliargli.
*Chiara Zanini collabora con diverse testate e festival ed è curatrice con Federica Fabbiani della prima monografia dedicata alla regista francese Céline Sciamma (Architetture del desiderio. Il cinema di Céline Sciamma, edita da Asterisco).