il retroscena
caterina stamin
«Quando nel ’68 ero una matricola all’Università di Torino, occupammo Palazzo Campana e togliemmo il crocifissi dalle aule, dicendo: “Questa è un’università, non è una chiesa. I crocifissi non ci devono stare”». Dietro la voce ferma di Brunello Mantelli c’è rabbia. «Mi sento offeso», dice. Perché? «Le università non devono essere dei luoghi di culto».
Il suo Ateneo, dove ha insegnato per quasi vent’anni, è scosso. L’androne di Palazzo Nuovo, l’edificio di vetro all’ombra della Mole, è irriconoscibile. Ci sono tende, bandiere della Palestina, striscioni. E centinaia di studenti che entrano ed escono, stabilendo – secondo loro criteri – chi può o non può fare lo stesso. È qui, durante l’occupazione dei collettivi pro Palestina che va avanti da oltre 10 giorni, che si tiene la “preghiera del venerdì”: il portavoce della moschea Taiba, Brahim Baya, raduna una trentina di fedeli per un momento di preghiera. In un luogo che dovrebbe essere un baluardo di laicità. «Mi è stato chiesto dagli studenti di fare da khatib e imam a tale preghiera – ha poi spiegato Baya – e ho accettato volentieri». Il video viene pubblicato sui social. E scoppia il caso. Alcuni docenti scrivono alla ministra dell’Università, Anna Maria Bernini. Altri chiedono le dimissioni del rettore. «È un caso politico – sottolinea Mantelli – in quanto accaduto non c’entra niente con la religione».
La prima a contattare Brahim Baya è Daniela Santus, docente del Dipartimento di Lingue, letterature straniere e culture moderne dell’Università di Torino. Gli chiede spiegazioni sul perché «il grande androne del palazzo universitario si è trasformato in moschea». Perché si è parlato di «jihad» e si è incitato alla «”lotta con le mani”». Non riceve le risposte che cerca. «L’intento dell’imam è forse più politico che teologico – è la conclusione – diversamente lunedì prossimo non accosterebbe il suo nome a quello dell’illustre matematico Odifreddi (sin dal 2013 in odore di negazionismo della Shoah)». Chiama in causa il rettore, Stefano Geuna. E non è l’unica a farlo. «Non dovrebbero le autorità accademiche prendere in mano la situazione?». Sul punto il mondo accademico torinese si divide. «Penso che il rettore non fosse a conoscenza di quanto sarebbe accaduto», sostiene Francesco Pallante, docente di Diritto costituzionale.
Ma la questione passa in secondo piano di fronte a un tema su cui sono tutti d’accordo: preservare la laicità dello spazio pubblico. «L’università è un luogo che deve rimanere laico – continua Pallante -. Anche chi difende la causa palestinese non dovrebbe cadere nell’islamismo politico». Giovanni Leghissa, docente di Filosofia, definisce “folle” aver permesso a un «imam di entrare nell’università, che così facendo ha svilito la sua funzione: l’insegnamento, che serve a produrre menti libere».
Gianluca Cuniberti, direttore del Dipartimento di studi storici, fotografa il contesto: l’ateneo tenuto sotto scacco dagli occupanti. Le tende, le bandiere della Palestina, le porte bloccate dalle sedie. «Da due settimane ci stanno privando dei nostri luoghi, impedendoci l’accesso e tutte le attività», attacca. Condanna il sermone e «i contenuti espressi», ma anche «il blocco praticato a Palazzo Nuovo del quale chiediamo subito la restituzione. È luogo concreto e simbolico della laicità, della partecipazione democratica, della condivisione dei saperi, della ricerca e della formazione universitaria».
L’occupazione è in stallo. Finora il confronto tra le anime dell’università – gli occupanti e il rettore – non ha portato a un punto comune. Ed è questo a preoccupare ancora di più i docenti. «Da stamattina sono bombardato di chiamate», dice Dario Peirone, professore del Dipartimento di economia. Telefonate sul sermone? «No, su progetti di ricerca internazionali. Eppure si parla dell’università di Torino solo per le tende e il sermone. Siamo preoccupati per l’immagine del nostro Ateneo, sotto tutti i punti di vista: dialogo democratico, sicurezza e influenze esterne all’interno dell’università». Alessandra Algostino, docente di Diritto costituzionale, è netta sulla laicità: «È un assunto imprescindibile». Ma invita anche a non strumentalizzare: «Quanto detto non intacca le ragioni e il valore delle proteste. Mi auguro che una scelta, su cui molti siamo contrari, non costituisca un motivo per delegittimare una protesta che ricorda a tutti noi il senso di umanità e il rispetto del diritto e dei diritti».