Rupnik, il Vaticano e l’artista russo: il pasticciaccio della “nuova Sistina”
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26 Giugno 2023Comunque le cose vadano a finire, quello cui abbiamo assistito è lo spettacolo di come quasi un quarto di secolo di putinismo ha ridotto una potenza nucleare, tra i fondatori del sistema istituzionale postbellico. La guerra in Ucraina, l’accordo con Prigozhin, la Cina. Un’analisi in prospettiva
Paradossalmente, a oltre 48 ore dallo svolgimento dei fatti, è ancora difficile capire che cosa sia davvero successo in Russia tra Putin e Prigozhin. Probabilmente perché di cose ne sono successe tante, nell’arco delle 12 ore scarse che è durato l’ammutinamento della Wagner, e il senso della loro dinamica è cambiato più volte. La sola certezza che abbiamo è che l’immagine dello Stato russo, delle sue istituzioni, ne è uscita decisamente ridimensionata, declassata ben al di là della scarsa performance delle sue forze armate dopo quasi 18 mesi di guerra totale condotta nei confronti di un vicino – sulla carta – decisamente più debole. Comunque le cose vadano a finire, quello cui abbiamo assistito sabato è lo spettacolo di come quasi un quarto di secolo di putinismo ha ridotto una grande potenza nucleare, membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu e fondatore del sistema istituzionale postbellico. Una compagnia di mercenari cresciuta all’ombra di Vladimir Putin si è ribellata contro il governo centrale del suo paese, ha occupato una serie di centri nevralgici della Russia sudoccidentale senza incontrare sostanziale resistenza e ha poi desistito dalla sua marcia sulla capitale, una volta che un vassallo di Putin (il presidente Lukashenka) si è offerto di mediare il conflitto. Sembrava di leggere le cronache che in queste settimane sono provenute dal Sudan.
Cercheremo di capire nei prossimi paragrafi la dinamica possibile degli eventi. Ma intanto constatiamo come si sia completato quel processo di personalizzazione assoluta del potere attuato da Vladimir Putin, una versione inedita di neo-patrimonalismo che ha trasformato la Russia in un territorio controllato da un cartello affaristico-militare di cui lui – Putin – resta il solo (per ora) credibile garante. Nonostante le sue quasi 7000 testate nucleari, le quantità gigantesche di mateire prime di cui il caso l’ha dotata, la Russia è a tutti gli effetti uno Stato fallito. La cosa è risultata particolarmente evidente già nella giornata di sabato, quando tutte le Cancellerie occidentali hanno emesso lo stesso scarno comunicato: “Sono affari interni della Federazione Russa, con i quali non intendiamo interferire. Il nostro unico impegno rimane quello di sostenere per tutto il tempo e in tutti i modi che saranno necessari la resistenza della Repubblica ucraina”. Riguardo a un Paese che sanzionano per la criminale aggressione a un vicino pacifico, ma con il quale non sono in stato di guerra e il cui governo riconoscono come legittimo, le democrazie occidentali hanno di fatto messo sullo stesso piano Prigozhin e Putin: il piccolo criminale e il grande criminale. Non sono cose usuali, a meno che non si abbia a che fare con il Sudan, appunto. Questo ha una serie di implicazioni. La prima è che per quanto Prigozhin possa essere un bandito da strada – e un potenziale “usurpatore”, per usare un lessico d’altri tempi – Putin è ritenuto sempre meno autorevole e la sua autorità è sempre più dubbia. Non per il titolo formale che gliel’ha attribuita: una serie di processi elettorali, sia pure condotti in condizioni illiberali ed eliminando sistematicamente e in maniera preventiva ogni credibile sfidante. Ma per le modalità con cui si dipana la lotta per il potere nel paese, più simile a quelle di un “mafia-state” che a quelle di un qualunque autoritarismo. Putin ha ripiombato la Russia in quella condizione che essa aveva, quando la Moscovia alla fine del XV secolo riuscì ad affrancarsi dal vassallaggio nei confronti dei khanati tatari dell’orda d’oro (i discendenti di Gengis Khan) che per quasi trecento anni l’avevano dominata, ereditandone però la concezione patrimonialista e personalistica del potere, per la quale il paese nella sua interezza, con la totalità delle sue ricchezze, apparteneva allo zar che ne concedeva il godimento ai boiardi, ma ai quali poteva sempre revocarlo a sua totale discrezione.