‘Happy Days’ Got Us Unstuck in Time
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21 Gennaio 2024Se ne discute da anni, attribuendone le cause alla tecnologia e alla ridotta capacità di concentrazione, ma è una questione ambigua e complessa
Da diversi anni sui media generalisti riemerge ciclicamente un dibattito che associa allo sviluppo delle nuove tecnologie e all’evoluzione delle esperienze umane condizionate da quelle tecnologie una progressiva scomparsa della noia. L’impressione più o meno condivisa all’interno del dibattito, che presenta comunque molte sfumature, è che l’utilizzo di Internet e dei dispositivi elettronici portatili occupi gran parte del tempo delle persone in generale: incluso quello in cui in passato si sarebbero probabilmente annoiate, quando capitava loro di non avere niente da fare.
La scomparsa della noia è un tema spesso discusso da persone che ricordano, per averlo vissuto, un tempo in cui la loro attenzione era meno estesamente contesa da mezzi di comunicazione e dispositivi portatili rispetto al tempo attuale. La loro prospettiva potrebbe tuttavia non essere troppo diversa, in un certo senso, da quella delle persone che nel corso dei secoli videro oggetti come libri tascabili, giornali, riviste, Walkman e videogiochi portatili modificare prassi e abitudini precedenti riducendo le occasioni in cui ci si poteva annoiare. Con la differenza che lo smartphone ha molte più funzioni ed è realisticamente molto più diffuso e molto più presente nelle giornate delle persone rispetto a quanto sia mai successo a quegli altri oggetti portatili.
Un’idea molto condivisa è che ridurre l’uso dello smartphone possa di conseguenza favorire l’esperienza della noia, quantomeno in alcune circostanze. C’è chi suggerisce di farlo proprio perché ritiene che quel tipo di esperienza sia benefica, ma oggi meno disponibile che in passato. Una gran parte degli esempi citati di situazioni in cui fosse possibile annoiarsi prima degli smartphone riguarda l’attesa di qualcosa: un volo, un appuntamento, una visita medica o il proprio turno a uno sportello. Gli esempi di noia attuali invece sono perlopiù casi in cui, per ragioni di cortesia o di altro tipo, sia sconsigliato o vietato usare lo smartphone: durante una riunione, per esempio, ma anche a una festa o a tavola.
Una serie di libri e ricerche ha ispirato negli ultimi due decenni approcci largamente positivi all’interpretazione della noia, intesa come l’insieme di sensazioni e riflessioni che emergono in assenza di qualsiasi attività: rimanendo sdraiati a fissare il soffitto, per esempio. A questo genere di inattività vengono attribuite la capacità di migliorare la creatività e l’immaginazione, e nel caso dei bambini quella di accrescere la familiarità con particolari sentimenti come la frustrazione e la tristezza, e allo stesso tempo fornire loro un’opportunità di riflettere su quali attività considerano appaganti e interessanti.
Esistono tuttavia ricerche che definiscono la noia come un fenomeno potenzialmente dannoso, associandolo a un maggior rischio di depressione, disturbi d’ansia, dipendenze e problemi psicosociali. Anche nel caso dei giovani, secondo uno studio del 2023 condotto su studenti tra 10 e 18 anni, l’inattività associata alla noia può accrescere l’inclinazione ai comportamenti sadici verso gli altri compagni di scuola.
Secondo lo psicologo John D. Eastwood e il neuroscienziato James Danckert, autori del libro del 2020 Out of My Skull: The Psychology of Boredom, una delle ragioni dell’ambivalenza e dell’ambiguità della noia è che non esiste una definizione condivisa e precisa di cosa sia, nemmeno tra gli psicologi. Per descriverla, Eastwood e Danckert la paragonano alla sensazione di avere la parola sulla punta della lingua (tip-of-the-tongue syndrome): nel caso della noia, la sensazione che manchi qualcosa ma senza sapere dire cosa.
In parte i lati oscuri della noia, evidenziati dagli studi che la associano a diversi tipi di problemi mentali, riflettono una tradizione culturale con radici molto profonde nel pensiero filosofico occidentale. Nel I secolo d.C., in una delle lettere al poeta Lucilio, il filosofo latino Lucio Anneo Seneca descrisse la noia (taedium vitae) come uno stato d’animo simile alla nausea, suscitato dalla contemplazione della ciclicità inarrestabile della vita. Nella tradizione cristiana e tra i monaci medievali l’accidia era una sorta di noia cronica caratterizzata da svogliatezza e irrequietezza, che distraeva dalle preghiere.
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Nel libro Boredom: A Lively History il professore canadese di studi classici Peter Toohey suggerisce di distinguere tra la noia intesa come una caratteristica fondamentale e biologica, cioè una condizione di cui le persone hanno sempre fatto esperienza in particolari circostanze, e la noia intesa come sottoprodotto della modernità. Mentre il primo tipo ha a che fare con una mancanza di stimoli, peraltro osservata e studiata anche negli animali non umani, il secondo tipo di noia ha a che fare con un senso di vuoto e di alienazione umana che scrittori, filosofi e sociologi hanno variamente contribuito a definire soltanto negli ultimi due secoli.
Il filosofo tedesco Martin Heidegger distinse tre forme diverse di noia durante il corso che tenne all’Università di Friburgo tra il 1929 e il 1930, i cui testi sono pubblicati nel libro Concetti fondamentali della metafisica. La prima tipologia è una noia superficiale: il «venire annoiati» da situazioni particolari come l’attesa di un treno. C’è poi un «annoiarsi» non dovuto a circostanze specifiche, che riflette un malessere con sé stessi, e infine una «noia profonda» intesa come «stato d’animo fondamentale» (Grundstimmung), dovuta all’ineffabile mancanza di qualcosa che non riusciamo a nominare ma allo stesso tempo ci sembra familiare (una definizione simile, per certi aspetti, a quella di Eastwood e Danckert).
Presentando la seconda forma di noia – che insieme a quella profonda contraddistingue una condizione umana più complessa e sfuggente rispetto alla noia di attendere un treno – Heidegger pone un esempio che descrive un’esperienza di noia molto comune nella vita quotidiana.
Siamo invitati da qualche parte per la sera. Non siamo obbligati ad andarci. Ma siamo stati tesi e impegnati tutto il giorno, e per la serata abbiamo del tempo libero. Così ci andiamo. C’è la solita cena con la solita conversazione a tavola, tutto è non soltanto molto buono, ma anche di buon gusto. Poi, come si dice, si sta insieme in allegria, si ascolta magari della musica, si chiacchiera, l’atmosfera è vivace e divertente. È già ora di andare via. […] In questa serata non si trova proprio nulla che possa essere stato noioso, né la conversazione né la gente né i locali. Si ritorna dunque a casa pienamente soddisfatti. Si dà ancora una rapida occhiata al proprio lavoro, interrotto la sera, si fa un calcolo approssimativo e una rapida previsione per il giorno successivo, — ed ecco qui: questa sera mi sono proprio annoiato di questo invito.
La noia intesa come un fenomeno potenzialmente dannoso sembra avere più legami storici con la noia «esistenziale», una condizione cronica indipendente da ciò che facciamo o non facciamo. Questa accezione contraddice almeno in parte anche l’idea comune secondo cui avere uno smartphone sempre in tasca limiti l’esperienza della noia: potrebbe anzi denotarla o persino favorirla, se per esempio si assimila lo scrolling alla ricerca inconcludente e frustrante di passatempi descritta nell’esempio di Heidegger.
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Anche in altri campi delle scienze sociali la noia è stata storicamente descritta perlopiù in termini negativi, come un effetto della disumanizzazione dell’individuo nelle pratiche di lavoro della società moderna. In un intervento radiofonico nel 1969 il filosofo e sociologo tedesco Theodor Adorno descrisse la noia come la «funzione del vivere nelle condizioni contraddistinte dalla coazione al lavoro e dalla rigorosa divisione del lavoro». Il tempo libero, in questa prospettiva, non sarebbe altro che il segno della mancanza di libertà, e la noia una condizione di «disperazione oggettiva» delle masse «irretite nel sempre uguale».
La ricerca contemporanea sulla noia nel campo della psicologia affronta alcune delle stesse domande che per secoli hanno impegnato filosofi, sociologi e scrittori, ma concentrandosi perlopiù sull’analisi della noia sul piano individuale anziché esistenziale, sociale o politico. Ed esistono due diversi approcci, come sintetizzato dal New Yorker nel 2020. Il primo intende la noia come un problema di «mancanza di significato»: deriva cioè dall’incapacità di trovare significativo e quindi interessante un compito che stiamo eseguendo, perché fondamentalmente non ci importa niente di quello che stiamo facendo.
Un altro approccio intende la noia come un problema di attenzione: se un compito è troppo difficile o troppo facile, perdiamo la concentrazione e la mente si ferma. La noia, secondo Eastwood e Danckert che si rifanno a questo approccio, si verifica «quando rimaniamo intrappolati in uno stallo del desiderio, in cui vorremmo fare qualcosa ma non vogliamo fare niente», e «le nostre capacità mentali, le nostre competenze e le nostre doti restano inattive». Può essere una condizione favorita da una serie di fattori: una situazione effettivamente noiosa, una predisposizione ad annoiarsi o l’indizio di un problema mentale sottostante. Quale fattore sia prevalente richiede una valutazione approfondita, caso per caso.
Secondo Eastwood e Danckert, che ritengono piuttosto deboli le prove empiriche a sostegno dell’ipotesi che la noia migliori la creatività, la noia è uno «stato cognitivo»: una condizione priva di un valore in sé, negativo o positivo che sia. È possibile che abbia una relazione evolutiva con il disgusto, cosa che spiegherebbe l’insofferenza che provano le persone che si annoiano. E del resto molti autori del passato, da Seneca al filosofo francese esistenzialista Jean-Paul Sartre, hanno descritto e spiegato la noia in termini di nausea.
Da questo punto di vista, come il disgusto permette di evitare stimoli potenzialmente nocivi, la noia potrebbe essere considerata una risposta evolutiva a situazioni sociali dannose, o il segnale che una certa condizione potrebbe evolvere in un problema mentale più definito. Ma il modo in cui gli esseri umani reagiscono alla noia è cambiato radicalmente nell’ultimo secolo. Le persone si sono abituate a un intrattenimento passivo, e cioè a fare di meno per ottenere di più, spiegò Eastwood allo Smithsonian: la possibilità di ottenere stimoli intensi con un clic del mouse o toccando uno schermo ha attivato meccanismi di assuefazione, che portano le persone a cercare ulteriori stimoli per mantenere lo stesso livello di soddisfazione.
Secondo studiosi come Eastwood e Danckert, dal momento che la noia è in gran parte una questione di attenzione insufficiente, ha senso concludere che tutto ciò che cattura e mantiene l’attenzione, e tiene le persone impegnate solo a un livello superficiale e frammentario, tenderà a incrementare la noia. È il motivo per cui gli stessi studiosi suggeriscono di solito di limitare attività «passive» – come guardare la tv o fare scrolling – rese possibili dalla tecnologia, che «non ha rivali nella sua capacità di catturare e mantenere la nostra attenzione», scrivono Eastwood e Danckert.
Il limite di questo approccio, scrisse il New Yorker, è che tende a sopravvalutare le capacità dell’individuo: non ha molto da dire sulle difficoltà strutturali che le persone affrontano nel tentativo di «stabilire un maggiore controllo sul loro tempo o sul proprio libero arbitrio nella loro vita». La noia è un fenomeno in parte individuale ma in parte collettivo, e descrive anzi uno stato delle cose in cui l’individuo ha sempre meno potere: «e non serve essere Adorno per cogliere queste difficoltà».