
Leila Aboulela wins PEN Pinter prize for writing on migration and faith
27 Luglio 2025
Matisse Il maestro e Marguerite
27 Luglio 2025di Vincenzo Trione
Osservatorio minimo. Piccolo tour attraverso l’Italia, per rintracciare sintomi e indizi di un interessante fenomeno artistico.
Gennaio 2025, Roma, piazza San Silvestro e piazza di San Lorenzo in Lucina. Fondati sulla combinazione tra i drappeggi di Gian Lorenzo Bernini, gli abbandoni visionari di Umberto Boccioni e le iconografie mobili di Henry Moore, i vortici plastici di Tony Cragg esibiscono un incontro tra solennità e leggerezza. Esaltati da cromie accese, blocchi maestosi modellati in 3D sono decostruiti tra curve e spirali. L’obiettivo: scolpire il vento.
Marzo, Firenze. Piazza della Signoria è «visitata» da un’apparizione in bronzo dorato di Thomas J. Price. Una giovane, forse dea postmoderna, «immortalata» in una posa che nulla ha di eroico o terribile, ma manifesta normale quotidianità.
Giugno, Bergamo. Un percorso urbano disegnato con sensibilità politica da Maurizio Cattelan, che invita a riflettere sulla ciclicità della storia: su ascesa e caduta dei valori. Nell’ex oratorio di San Lupo, un’aquila di marmo ispirata al motivo commissionato nel 1939 dall’acciaieria Dalmine allo scultore Giannino Castiglioni per la decorazione del ceppo commemorativo del discorso tenuto da Benito Mussolini nel 1919 agli operai dell’azienda. Memore di quella vicenda, origine dei Fasci di combattimento, Cattelan ha inventato un rapace che, con le ali spiegate, giace a terra: figura di una potenza infranta, di sovranità decaduta.
Eccoci nella Sala delle Capriate del Palazzo della Ragione, nel Medioevo sede delle assemblee cittadine. Una statua d’impronta realistica stimola una meditazione sul nostro rapporto con la marginalità, con la decadenza, con la giustizia. Un homeless non troppo diverso da quelli dipinti da Banksy in tanti suoi interventi murali. Un senzatetto sdraiato su una panchina, con i pantaloni slacciati, mentre si sta urinando addosso, come indica la presenza dell’acqua sul pavimento.
Stazioni ulteriori di quest’itinerario. In una stanza della Gamec, intrappolato in una bottiglia di vetro, un mattone timbrato con la parola Empire, che allude a una tensione rivoluzionaria destinata a non compiersi. Nella stessa sala, una rielaborazione di Him, che ritrae un Hitler bambino inginocchiato in preghiera, il volto rivolto verso l’alto in atto di supplica e di perdono: la testa del dittatore, adesso, è coperta da un sacchetto, metafora di censura, di controllo, di rimozione.
E ancora: la Rotonda dei Mille, a Bergamo Bassa. Sulle spalle di Garibaldi, Cattelan ha posizionato un bambino che, con le dita della mano destra, mima una pistola. Un gesto ambiguo, che dice passione per il gioco, inquietudine infantile, ma anche attrazione verso la guerra. Chi è quel ragazzino? Un ribelle? Un vandalo? Un nipote che sta sulle spalle del nonno? Un nano sulle spalle di un gigante?
Ideale appendice di questa mostra, la personale di Cattelan inaugurata e chiusa in una sola serata nella leggendaria Villa Malaparte di Capri («accessibile tramite barca, solo su invito»). Una serie di sculture in marmo che interagiscono con l’ermetica architettura dell’edificio: mani che accolgono uccelli esanimi su pile di libri chiusi; volti occultati da mani che afferrano guance e occhi.
Infine, Milano, luglio. Nel cortile di Palazzo Reale, Valerio Berruti deposita l’enorme busto di una bambina che guarda lontano, in attesa di un’imminente apocalisse. Una statua austera ma accogliente, dentro la quale è possibile entrare: come se fosse un rifugio antiatomico.
Baudelaire contro la sculturaPer far affiorare il filo che lega questi episodi diversi, potremmo muovere dal Salon del 1846 di Charles Baudelaire. Vi si parla della scultura come di un’ «arte complementare», caratterizzata da eccessivi vincoli mimetici. «La scultura si avvicina assai più alla natura (…). Brutale e positiva al pari della natura», ha scritto il grande poeta francese, il cui j’accuse è il preludio al declino novecentesco di un linguaggio antico che, progressivamente, si è dissolto in una pratica da decenni trionfante nell’artworld. Ci riferiamo a quello «spettacolo del meretricio dell’arte che chiamano installazione», stigmatizzato da Rosalind Krauss. Si pensi a rassegne come Documenta di Kassel e la Biennale di Venezia. Ovunque, assemblage che potrebbero essere interpretati come forme entropiche di sculture. Nel rimandare a un’epoca dissonante e priva di centro, queste opere non si basano sul ricorso a media distintivi (tela, pietra, pellicola). Il loro unico supporto, potremmo dire con un’intuizione critica del filosofo Boris Groys, è lo spazio. Che viene radicalmente riscritto, trasformato, fino a farsi contesto definito, fisso, stabile.
Fermare il tempoMolto frequentate dagli artisti contemporanei, analogamente alle performance e agli happening, le installazioni dicono il cupio dissolvi di cui siamo vittime. Rinviano a un tempo dominato dalla successione incalzante delle immagini e dal bombardamento disordinato delle informazioni, che minano alle radici la possibilità di sviluppare un pensiero critico, liberamente contemplativo: tutto sembra scorrere su una superficie senza rilievi né pause o discontinuità.
Attraversiamo un’età segnata dall’incapacità di conservare selettivamente. Storditi dal potere delle tecnologie, senza sforzi scattiamo fotografie e giriamo video, alimentando un fiume indifferente, fatto di miliardi di istantanee, che ci inondano, pronte a soddisfare le nostre curiosità fugaci. Nell’arricchirci, questo blob sottrae vibrazioni d’anima. E induce a rimuovere la difficile disciplina del saper vedere. È una perversa intossicazione cognitiva ed emotiva, che favorisce una versione fluida della conoscenza. Testimonianze di questa situazione, le installazioni scelgono di non restare. Condannate a dissolversi, sopravvivono solo attraverso ricordi e racconti. E attraverso documentazioni fotografiche e video.
Per reagire a questa deriva, alcuni artisti sperimentano un modo diverso di abitare la modernità. Anche se travolti da un’ossessiva concentrazione sul presente, essi cercano un sostegno alla nostra vacillante memoria culturale. E riconoscono proprio nella scultura — declinata su scala urbana — qualcosa che preesiste a noi e può addirittura rassicurare. Danno voce così a un’originaria ambizione: non collaborare con il flusso della Storia, ma fare resistenza a esso. Dunque, fermare il tempo. Che, in sé, è grande scultore (come amava ripetere Marguerite Yourcenar).
La logica del monumentoSulle orme di un’antica tradizione, pur distanti, Cragg, Price, Cattelan e Berruti sembrano condividere il bisogno di opporre al mito della modernità liquida una profonda fascinazione per quella definita ancora da Krauss la «logica del monumento». Che si fonda su alcuni elementi decisivi: attenzione alle funzioni celebrative della statua, collocazione della statua stessa in luoghi specifici, rispetto di una grammatica mimetico-rappresentativa, predilezione per soluzioni verticali, ricorso a piedistalli in grado di indicare una distanza tra opera e pubblico.
Sapienti nel reinventare un genere nobile attraverso azioni spesso iconoclaste, questi artisti si abbandonano all’estasi di «fare in grande». Nel richiamarsi alla classica idea di monumentun ære peremnius, investono le forme di una presenza monumentale e ambientale. Scelgono, perciò, di affidarsi alla bigness, intesa non come vuoto slogan pubblicitario, lontano da ogni intenzionalità critica, ma come strumento per vincere il transitorio. Reazione a un’epoca dominata dall’effimero. Utopia della durevolezza. Ipotesi per sopraffare chi osserva.
Esemplare il caso-Cattelan. Il quale, varcata la linea d’ombra della maturità, sembra avvertire con forza il bisogno di intraprendere un sereno ritorno all’ordine, portandosi fuori da un teatro fatto di motti di spirito e provocazioni, di trovate impertinenti e straniamenti assurdi, di miniaturizzazioni e dilatazioni.
Plasmare il mondoPer cogliere le ragioni sottese a questa ipotesi di nouvelle vague, potremmo tornare alle osservazioni di uno tra i maggiori scultori contemporanei, Antony Gormley, contenute in un libro-intervista scritto insieme con Martin Gayford, Plasmare il mondo (edito da Einaudi nel 2021). Che muove dalla cruciale domanda posta da Gotthold Ephraim Lessing nel Lacoonte: «Che cos’è la scultura?».
Siamo dinanzi a una tecnica che, da secoli, tende a ripetere le medesime liturgie, mirando a coniugare corporeità, spazialità e metafisica. Da un lato, il saper modellare sostanze inerti, dense e immobili. Dall’altro lato, la volontà di potenza. Dall’altro lato ancora, la sfida nel condurre il pubblico fuori dalla vita activa. Disciplina alchemica, la scultura è arte del corpo ma anche arte della mente: combina un bisogno interiore con uno slancio metafisico. Una forma fisica del pensiero: usa il silenzio della materia per parlare dello spirito, sfida l’ineffabile, rende concreto l’intelligibile, plasma lo spazio e la luce, fa crollare la distinzione cartesiana tra res cogitans e res extensa.
Ma, forse, analogamente al dipingere, l’atto dello scolpire ha soprattutto la valenza di un gesto originario, archetipico. È un modo per resistere al divenire del tempo e per riscoprire la bellezza “inattuale” della contemplazione. «Scolpire riporta ai fondamenti. È come quando metti qualcosa al mondo, determinando una trasformazione del mondo stesso», è «espressione umana di materiali geologici trasformati, che hanno una durata superiore rispetto a quella di qualsiasi corpo. Ecco: la scultura ci rende maggiormente consapevoli del nostro essere mortali», ha detto Gormley.
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