À 50 mètres du sol, Nathan Paulin s’exerce au funambulisme au-dessus du port de La Rochelle
11 Giugno 2023Il futuro è sempre meglio del passato
11 Giugno 2023Donatella Puliga, Rita Pappalardo, Luigi Spina
Sabato 27 maggio. Il presidente della Repubblica è in raccoglimento davanti alla tomba di don Lorenzo Milani nel piccolo cimitero di Barbiana, una frazione altrimenti sconosciuta del Mugello, in Toscana. Due giorni dopo, a 240 chilometri di distanza (in linea d’aria), nella produttiva Abbiategrasso, un’insegnante viene accoltellata da uno studente, alla vigilia di un colloquio con i genitori del ragazzo che aveva ricevuto alcune note in merito al comportamento in classe. Mondi lontani, lontanissimi, ma che vedono protagonista, pur nella distanza siderale, la scuola. Illuminata e profetica, quella del sogno che Lorenzo Milani (di cui si è appena celebrato il centenario della nascita) fece diventare realtà, la scuola dell’I care, dell’inclusione autentica, la scuola della «lingua che fa uguali», che insegna a parlare, a leggere, e a intus-legere, a leggere dentro, per capire la realtà e abitarla consapevolmente. Dall’altra la scuola che non è più, o quasi più, uno strumento di liberazione e di riscatto, né un ascensore sociale, ma un ambiente in cui il riconoscimento del tanto osannato merito soffre di asimmetrie, un luogo in cui si manifestano disagi e sconnessioni anche gravi, indipendentemente dall’estrazione sociale e culturale dei membri che la costituiscono. Una realtà che sembra essere attraversata, nelle diverse componenti che interagiscono nel processo educativo, da un vento di paura, che paralizza e mortifica gli slanci di tutti quelli che ne fanno parte. Tutti in qualche modo, a proprio modo, spaventati: gli studenti, dalla competizione e dal fallimento; i docenti, dai genitori degli alunni; i dirigenti, dagli avvocati dalla denuncia facile. E tutti — in un certo senso — spaventati dalla cultura autentica e anche faticosa, compagna di strada e di vita.
Eppure, la prossimità di termini come scuola e paura sembrava essere stata definitivamente scongiurata a partire dalle grandi trasformazioni ormai databili al secolo scorso, che alla scuola dell’autoritarismo e del classismo avevano dato un colpo definitivo. Da dove, allora, rinasce questa paura? Proprio mentre si conclude un altro anno scolastico, ne parliamo con Luigi Spina, che ha insegnato per molti anni all’Università Federico II di Napoli e annovera tra i suoi impegni anche quello della formazione degli insegnanti, e con Rita Pappalardo, dirigente del liceo Visconti di Roma.
DONATELLA PULIGA — Un grande filologo e maestro come Giorgio Pasquali definì la scuola come «casa delle Muse». Una definizione che appare oggi lontanissima.
LUIGI SPINA — Intanto va detto che non sempre l’università è stata all’altezza del suo compito di formazione dei docenti. Non ha tentato, cioè, di armonizzare contenuti e metodo dell’insegnamento accademico con quella creatività che permettesse di individuare, e non una volta per tutte, ma con la capacità di adeguarsi costantemente al reale, i contenuti-base per la formazione delle nuove generazioni. Paura è una parola davvero forte, che legherei a disagio, estraneità, malessere. È come se «la casa delle Muse» si fosse trasformata, non dico in una casa degli orrori, ma in un condominio di gente poco socievole, scostante, che si deve frequentare per forza, ma senza trovarne piacere e riconoscerne l’utilità: senza quell’entusiasmo, insomma, con cui si dovrebbe avviare una nuova giornata della propria vita. Si è passati dalla pura paura della scuola, che comunque — lo dico per esperienza diretta — era ben presente anche nella «casa delle Muse», alla paura nella scuola, quasi che questo luogo sempre più complicato, ma anche sempre più stanco, possa in qualche modo deteriorare e interrompere una qualità della vita che al di fuori di quelle pareti ciascuna componente sa organizzare meglio. Penso alla sempre più difficile combinazione fra tempo della scuola e tempo delle attività extra scolastiche, da quelle sportive a quelle musicali, cruccio ormai costante di familiari e studenti, ma penso anche all’aggravio burocratico dei tempi di lavoro per docenti e dirigenti. E il paradosso è emerso chiaramente con la pandemia, che non è stata certo la fonte unica e prima dell’attuale paura, ma ha indubbiamente scoperchiato il vaso delle contraddizioni. Rompendo un ritmo rutinario, anche se in qualche modo difettoso, e costringendo a ridurre all’osso funzioni didattiche e formative e necessità di partecipazione e condivisione.
RITA PAPPALARDO — Con la pandemia la scuola è entrata nelle case attraverso la didattica a distanza. Questo, in alcuni casi, ha generato un clima di fiducia maggiore, in altri ha portato le famiglie, soprattutto quelle appartenenti alla borghesia (se ha ancora un senso questa classificazione) a sentirsi in diritto di interferire con le scelte educative, che riguardavano il Collegio dei docenti. È chiaro che l’alleanza tra scuola e famiglia è l’elemento alla base del rapporto tra queste due istituzioni e che è assolutamente fondamentale guardare nella stessa direzione, nel rispetto dei ruoli. Per cui sarebbe auspicabile un patto educativo. Alla scuola oggi si chiede troppo, semplicemente per il fatto che la scuola è una porta sul futuro, ma quando il futuro è incerto le richieste diventano pretese, e le pretese sono per definizione eccessive. Si chiede alla scuola di compensare risposte che non arrivano da altre fonti educative e, soprattutto, si chiedono risposte immediate. Qui e ora, tutto e subito: uno stravolgimento dell’invito a cogliere il momento opportuno, che deve invece saper fare i conti con il tempo e le sue scansioni. E allora le aspettative si fanno enormi: la scuola deve educare, fornire nozioni utili, conoscenze, competenze, formare i cittadini attivi del futuro, intervenire sul disagio giovanile post-pandemico (ma anche generazionale) che si manifesta attraverso crisi di ansia, attacchi di panico, autolesionismo, incapacità di attraversare le emozioni e di gestire le relazioni con sé stessi e con il mondo dei coetanei e degli adulti. Abbiamo dati allarmanti, da questo punto di vista, ma sembra che i rimedi siano spesso inadeguati. Non bastano, evidentemente, i supporti psicologici pur presenti attraverso gli sportelli di ascolto che sembrano rispondere più a un bisogno di completezza nella fornitura di un servizio che alle reali e profonde esigenze di chi non senza difficoltà se ne avvale. Bisogna dare tempo ai ragazzi per crescere. Invece non di rado accade che la corsa alla valutazione (a scapito della valorizzazione) imposta dalla normativa (e da una sua applicazione talora troppo rigida) generi una strozzatura dei tempi della conoscenza. Ai tempi, poi, va adeguato lo spazio, quello che Loris Malaguzzi definiva il terzo educatore, da progettare e predisporre come parte integrante del processo cognitivo. È chiaro che il liceo Visconti, che dirigo, è in questo senso il migliore dei mondi possibili, perché il Collegio romano della Compagnia di Gesù, di cui occupa una parte, è di indiscutibile bellezza. Ma occorrono per tutte le scuole spazi differenziati funzionali alle diverse esigenze: mensa, biblioteche, palestre, laboratori scientifici, auditorium. Sono necessari spazi di cui i docenti possano usufruire per studiare, incontrare i genitori, realizzare tra di loro una proficua collaborazione, di prossimità e di senso di appartenenza.
LUIGI SPINA — La pandemia ha fatto capire che solo in pochi casi c’erano le risorse di una volontà condivisa e partecipata, direi anche generosa, per affrontare l’emergenza. Nella «casa delle Muse» degli ospedali, per esempio, si è assistito a una generale e positiva risposta del personale, a qualsiasi livello, in vista di un bene comune. Non ha prevalso la paura, eppure ce n’erano tutti i motivi. Nella scuola, invece, ha avuto la meglio lo sguardo sospettoso e critico sulla generosità disinteressata, oppure la clausola sindacale sulla necessità di affrontare la nuova sfida. E anche il dibattito sulla Dad (Didattica a distanza) è stato spesso pregiudiziale e mai contestuale. Non ho difficoltà a pensarla così, anche perché so che tante e tanti, invece, hanno risposto in maniera positiva e non si sentiranno offesi da queste parole. Nessuna categoria è totalmente buona o cattiva. Ora, terminata, direi, la pandemia, i problemi sono rimasti irrisolti. Il ritorno alla normalità ha mostrato che la socialità, la convivenza che si richiede a questa nuova casa «impaurita» va conquistata con un nuovo patto di collaborazione, con un nuovo slancio che in qualche modo prescinda anche dagli errori e dalle lentezze del ministero e delle istituzioni, ma sappia costruirsi nella concretezza delle singole scuole, a partire dai singoli istituti. Chi deve fare il primo passo? Chi è più adulto, direi, quindi docenti, dirigenti e genitori.
DONATELLA PULIGA — Diversi tipi di paura, quindi, su ognuno dei quali gettare uno sguardo che illumini, che cerchi di diradare le tenebre dell’incerto, perché il sentimento della paura si sviluppa sull’asse del tempo e nutre varie forme di rappresentazione mentale: paura di qualcosa che si conosce e che si è sperimentato, perché potrebbe ripetersi (rapporto passato-futuro); paura di qualcosa che si ha nel proprio immaginario e che potrebbe verificarsi e coinvolgere (rapporto presente-futuro, e conseguente ansia anticipatoria). Come, nel tempo e nelle diverse culture, non si ride per le stesse cose, così non si ha sempre paura delle stesse cose, o persone, o modi di essere.
LUIGI SPINA — Oggi, pur senza generalizzare, la paura è quella del fallimento, dell’insuccesso, visti come falle irrimediabili; della non visibilità e della non accettazione, dell’incapacità di corrispondere a modelli che sembrano consolidati e facili da imitare, ma in realtà risultano irraggiungibili. Mi pare che si sia perso il gusto del rischiare, del non accontentarsi del definito e consentito; non si pratica quella elasticità mentale che, soprattutto per chi dirige e decide, deve far parte dello sguardo lungo, del proprio coinvolgimento in prima persona nel processo di cambiamento inteso come miglioramento sostenibile. E se questo, dal versante degli adulti, potrebbe rappresentare anche un ponte di dialogo, di contatto, con il mondo dei più giovani, per questi ultimi può rappresentare la risposta ai loro dubbi, alle loro paure: trovare un mondo degli adulti di riferimento che si assuma le proprie responsabilità, che non si tiri indietro, che sia capace di mostrare nei fatti come un vero dialogo. Dunque, uno sguardo composito, non unidirezionale o con i paraocchi. In questi anni, passi avanti significativi sono stati fatti con il sostegno e le certificazioni dei disagi temporanei o permanenti (strumenti nati per favorire l’inclusione), con l’accoglienza e la multiculturalità delle classi, da cui non credo si possa tornare indietro. Basterebbe partire dal modo come sono state affrontate queste paure, e dal circolo virtuoso che si è creato, nei casi migliori, fra scuola, famiglie, docenti; basterebbe ricordare come i genitori fossero costretti, in anni per fortuna lontani, a pietire individualmente dalla scuola un atteggiamento di comprensione per disabilità che si aveva vergogna a portare in pubblico, per sostenere che anche le nuove paure potranno essere, un po’ alla volta e con grande pazienza, affrontate e stemperate, purché se ne abbia volontà e capacità.
DONATELLA PULIGA — È circolato negli ultimi mesi sulla rete un video in cui il regista Paolo Sorrentino — nella seconda puntata della serie tv Call My Agent- Italia (Sky) — descrive in toni ironici e sconsolati il coinvolgimento dei genitori degli studenti all’interno del sistema-scuola: parla dell’«entusiasmo immotivato» che si annida nel tentativo di portare dentro la scuola le competenze dei genitori per poter creare un clima collaborativo con la scuola stessa. Ma questo pur lodevole tentativo presenta, come altra faccia della medaglia, forse un’eccessiva volontà di controllo dello spazio «alternativo» che la scuola dovrebbe in qualche modo costituire. Se, infatti, la cooperazione delle famiglie ha rappresentato, a suo tempo, un indubbio segnale di apertura tra mondi che sembravano reciprocamente impenetrabili, non mancano oggi derive che possono minacciare questa relazione. Non vorremmo arrivare a sottoscrivere l’immaginaria lettera a Dio, nella quale Sorrentino chiede al destinatario di occuparsi dell’educazione: non dei figli, ma dei genitori. Abituati non di rado a essere gli amici dei propri figli (e a occupare, quindi, uno spazio che non dovrebbe essere di loro pertinenza), i genitori hanno spesso contribuito a sgretolare, insieme alla propria, l’autorità e l’autorevolezza degli insegnanti. Quali possono essere i correttivi concreti a questa deriva?
LUIGI SPINA — Ci sono stati anni in cui la scuola costituiva un momento forte di socialità, mentre la dimensione familiare, come luogo di scambio relazionale, era molto più gerarchizzata e standardizzata. La scuola era accettata o subita, dalla componente studentesca e genitoriale/familiare, con poche possibilità alternative; quanto alla componente genitoriale, la non-interferenza nei meccanismi di funzionamento della scuola riduceva i momenti di scambio di informazioni o di dialogo. L’inizio delle contestazioni all’autorità, il Sessantotto — che non è stato, come si sa, un unico anno, ma un lungo periodo —, con le lotte per una maggiore democrazia e partecipazione, determinate anche dalla insostenibilità delle gerarchie immotivate, ha sconvolto il quadro, colpendo sicuramente le varie autorità, ma non si è dato quasi mai un contraccambio di assunzione di responsabilità rispetto ai nuovi diritti conquistati. Il cambiamento di mentalità, la nuova attenzione al ruolo delle giovani generazioni nella vita del Paese, dei principi educativi e di dialettica nella struttura familiare, ha finito per assegnare alla scuola un ruolo abbastanza diverso: l’asse studenti-genitori, per così dire, ha creato una diversa e più variegata interlocuzione con la dirigenza e la componente docente, con intrecci di poteri non sempre perspicui. Andando sempre per grandi tagli «sociologici», negli ultimi anni lo sviluppo dei mezzi di comunicazione, delle reti e delle piattaforme di socializzazione, ha reso la scuola uno spazio che accoglie ragazzi e ragazze già in possesso di molti altri riferimenti «formativi» o, meglio, «informativi», autogestibili, in un continuo scambio con il mondo circostante, in un vortice di sollecitazioni, modelli, domande. Eppure manca, e questo è un punto cruciale, il momento della verifica profonda, della risistemazione, guidata secondo un progetto più generale, di tutte queste informazioni. La scuola non è più, quindi, lo spazio del quale si può avere paura, ma solo quello nel quale si possono portare le proprie paure. Questa metamorfosi, accentuata dalla pandemia, è oggi il vero mutamento che l’istituzione deve saper raccontare mentre lo affronta.
RITA PAPPALARDO — In tema di autorità e autorevolezza, si tratta di termini accomunati da un’etimologia che ce ne restituisce il senso pieno, riconnettendoli al verbo augeo (far crescere, promuovere in senso valoriale). L’autorevolezza è un presupposto fondamentale, oltre che una continua costruzione, sia nel rapporto tra docenti e studenti sia in quello tra dirigente e docenti. Il dirigente deve essere persona della visione, non della burocrazia: visione di una strada da seguire insieme ai docenti, verso obiettivi comuni e condivisi. E oltre a questa chiarezza di visione, occorrono competenze professionali, motivazione, passione per i giovani e, soprattutto, autocontrollo, equilibrio e disponibilità all’ascolto di tutti: docenti, studenti, genitori. Senza possibilmente che questi ultimi si arroghino un potere diverso da quello dell’educazione cooperativa: la relazione e la collaborazione reciproca sono la chiave di una relazione efficace e di una leadership che, evitando assolutamente l’autoritarismo, il paternalismo e il laissez faire, coordini le forze per sviluppare senso di appartenenza e liberare energie positive. Il rapporto tra docenti e studenti non può oggi non fondarsi su una continua ricerca di strategie, di strade, alleanze, spazi di autonomia e di libertà dei ragazzi, proposte e progettualità condivise. Non è più pensabile che si possa insegnare ricordando o imitando i nostri docenti. Purtroppo, soprattutto nella scuola secondaria di secondo grado, gli insegnanti hanno solide competenze disciplinari, ma mancano di conoscenze e competenze autenticamente pedagogiche. Invece una scienza dell’educazione è oggi più che mai necessaria: le numerose situazioni di fragilità e di disagio nelle generazioni post-pandemiche (ma non solo) e le richieste di ogni genere che in un momento di crisi come questo vengono rivolte alla scuola devono spingerci in questa direzione.
LUIGI SPINA — Quando furono istituiti i cosiddetti «decreti delegati» sulla scuola, nel 1973, facevo parte della componente sindacale che li avversava perché li riteneva un bavaglio alla libera circolazione e attività dei mitici «movimenti». Nel tempo, mi ero convinto, invece, che la partecipazione dei genitori (naturalmente di quelli con idee progressiste) fosse una sorta di presidio democratico per sconfiggere tutti i pericoli di attacchi alla democrazia. Ora, anche questa forma di rappresentanza ha vissuto la crisi della partecipazione politica e ha ridotto il suo orizzonte a quello che spesso oggi si presenta come una pressione forte dei genitori sulle strutture scolastiche, non sempre adeguatamente collegiali e solidali, in difesa della fragilità giovanile, dell’eccessivo peso del tempo scuola sul resto della giornata; insomma, si sconta, e non poteva essere diversamente, l’appannamento di un ruolo formativo che sia capace di misurarsi con i tempi che viviamo e di indurre a riflettere sui singoli egoismi e particolarismi. Devo dire che questo dato, pur evidente, mi preoccupa meno dei fenomeni che coinvolgono docenti e dirigenti, perché è da lì, dagli adulti che insegnano e dirigono, che deve ripartire una possibile correzione delle storture anche nel campo della rappresentanza. Un’autorità deve continuare a esistere, con diritti, doveri e responsabilità precise; l’autorevolezza dovrebbe essere sempre il suo requisito, convincente e affidabile. L’autoritarismo, non a caso, è la maschera di chi non sa essere autorevole, pur avendo autorità. Si potrebbe sostenere — lo vedo, esplicito o mascherato in molte posizioni di questo interminabile dibattito — che «la scuola deve ritornare a fare il proprio mestiere», ma mi sembrerebbe il modo più autoritario (e fallimentare) di risolvere i problemi, perché questo «ritornare» significherebbe negare proprio il cambiamento profondo, nei fatti, del ruolo di una struttura di formazione ed educativa. Nessuno potrebbe tornare a fare qualcosa che è stata, se non perduta, modificata a fondo. E che peraltro mostrava segni di inadeguatezza anche prima. Eppure ci sono sicuramente esempi di come, in diversi istituti, ci si è interrogati sul tipo di risposta da dare alle crisi e alle paure. Momenti di magico accordo? Lungimiranza di docenti e dirigenza? Consapevolezza delle famiglie e adattabilità degli studenti? Disponibilità di fondi per fare fronte alle troppe emergenze? Esportare i modelli non è mai facile o risolutivo, ma certo sarebbe utile una sorta di «manifesto» chiaro ed essenziale della scuola capace di attutire i danni dell’eredità pregressa di troppi anni di riforme mancate, di mancata formazione e selezione.
DONATELLA PULIGA — La preziosità del lavoro che la scuola richiede non può non avere una contropartita concreta sul piano della valorizzazione, del riconoscimento di un’attività dell’intelligenza e della cura che troppo spesso è stata denigrata, umiliata economicamente, svalutata. Il prestigio sociale di chi fa questo lavoro vive un’eclissi che sembra destinata a sfociare in una penombra eterna. Anche da qui occorre ripartire, perché persone demotivate non potranno mai alimentare la motivazione. È il desiderio, che va acceso: anche quello di andare almeno in parte controcorrente, per sviluppare il pensiero critico e la capacità di non appiattirsi su una pur rassicurante omologazione. Senza scontri frontali: un aggettivo che si usa — sarà un caso? — anche a proposito delle lezioni, che in questa metafora automobilistica (che fa il paio con quella dello sportello di ascolto) hanno veramente fatto il loro tempo.
RITA PAPPALARDO — La scuola non può e non deve solo trasmettere cultura, ma costruire cultura: non insegnando a immagazzinare informazioni preconfezionate — peraltro volatili — ma promuovendo l’uso intelligente, consapevole e creativo delle proprie conoscenze. Non può scomparire l’idea che la cultura sia un valore in sé, che ci permette di fruire del bello, dell’arte, della lentezza, che ci consente di comprendere e gestire le nostre emozioni di esseri umani, non solo di trovare una collocazione nel mondo del lavoro. Sviluppare il pensiero critico significa consentire a ciascuno di manifestare la propria personalità in maniera originale e unica. È il contrario dell’individualismo, perché avere un pensiero critico significa anche accettare un pensiero diverso dal proprio, saper confrontarsi con mondi diversi senza pregiudizi e, quindi, costruire equità e tolleranza. Questo è il valore della scuola, che forma i cittadini di domani orientandoli ai principi e ai valori costituzionali, in particolare all’esercizio della cittadinanza attiva, all’interazione con la pluralità delle culture, alla disponibilità al cambiamento, all’etica della responsabilità verso sé, verso gli altri, verso l’ambiente. Compito difficile e faticoso, ma entusiasmante, a proposito del quale vale la bella immagine di Zygmunt Bauman: «Se pensi all’anno prossimo semina il granturco, se pensi ai prossimi dieci anni pianta un albero, se pensi ai prossimi cento anni istruisci le persone».
LUIGI SPINA — Se la scuola può ancora essere una casa, non so se di Muse, di saperi, reti culturali o di che altro; se serve ancora una struttura fisica, legata a un tempo della giornata e a una fase della vita, nella quale il groviglio di voci esterne che vengono dalla storia e dalla contemporaneità trovi la possibilità di una sistemazione, di un modo di imparare a comprenderle a fondo e gestirle, di finalizzarle a una convivenza quotidiana, già da giovani e poi da adulti… allora si tratta di rendere questo luogo praticabile, accogliente, utile, «doveroso», adeguato, indispensabile, unico nella sua funzione. A partire da chi lo dirige e ci lavora, e a partire dall’università che forma. Il pensiero critico si forma nel modo di apprendere, di selezionare i contenuti, di fissare limiti e diritti/doveri epistemologici. Facile, banale, ovvio, tutto questo? Le ovvietà non realizzate rimangono il vero problema di questo Paese. Quindi difficile, ma urgente e necessario. Partendo, possibilmente, dal bicchiere mezzo pieno, per evitare che il bicchiere mezzo vuoto, sbandierato spesso con l’accanimento tipico di chi si erge a saggista apocalittico, finisca per prosciugare le tante energie e intelligenze che ancora, per fortuna, ci sono.
DONATELLA PULIGA — In tempi ormai lontani, ma con una visione non poco profetica, Ivan Illich aveva descritto la scuola come «l’agenzia pubblicitaria che ti fa credere di avere bisogno della società così com’è». Ecco: ci augureremmo che, nella sua profonda trasformazione, la scuola non cedesse alla tentazione di diventare un’erogatrice di servizi che moltiplicano falsi bisogni di accudimento e di consumo, non smettesse di riconoscere la propria vocazione a essere laboratorio del cambiamento della società, dilatando gli orizzonti della possibilità — di tutti e di ciascuno — di accedere alla pienezza del proprio essere umani.
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