Giovanni Orsina
Dalla convention “Europa viva 24” del partito spagnolo Vox che si è svolta ieri a Madrid, la nuova destra globale ha lanciato soprattutto due segnali, uno di eterogeneità, l’altro di forza.
Ha certamente molto chiaro, quella destra, che cosa non è e che cosa non vuole. Si presenta con orgoglio come una forza di opposizione e trasformazione, di rottura profonda rispetto a un establishment progressista che ritiene sia stato finora al potere, cui attribuisce la responsabilità dell’attuale crisi politica e spirituale, e dal quale lamenta di essere stata ingiustamente demonizzata e ostracizzata. È l’ostentazione di ciò che sta in basso (the flaunting of the low) che per il politologo cileno Pierre Ostiguy rappresenta il vero tratto caratterizzante del populismo: la celebrazione impudente della propria natura plebea, alterità rispetto ai palazzi del potere, estraneità alle ipocrite buone maniere delle élite corrotte. È la retorica dell’underdog alla quale ci ha abituati Giorgia Meloni – ma, a dimostrazione di come questo tratto non sia presente soltanto a destra, è anche un po’il «non ci hanno visto arrivare» di Elly Schlein.
Quando ci si chiede questa destra globale che cosa voglia in positivo, tuttavia, le cose si fanno più complicate. Non sembra concordare su come debba essere affrontata la guerra fra Russia e Ucraina – e non è certo un punto di dissenso secondario, soprattutto per gli europei. Ospita al proprio interno opinioni anche molto diverse su un’altra questione centrale dei nostri tempi, il ripensamento del rapporto fra Stato e mercato. Ieri a Madrid, osannato dalla platea, ha parlato il Presidente argentino Javier Milei, le cui posizioni anarco-capitaliste sono distanti da quelle sì produttiviste, ma pure dirigiste e protezioniste che circolano nella destra europea. Infine, se nel ragionamento coinvolgiamo ad esempio il Partito per la Libertà di Geert Wilders che in questi giorni sta entrando nel nuovo governo dei Paesi Bassi, la destra appare divisa pure sui temi cosiddetti biopolitici.
Malgrado queste differenze, sulle quali torneremo in conclusione, ieri la destra globale ha potuto legittimamente celebrare la propria forza. Le proiezioni di Europe Elects sui sondaggi di aprile ci dicono che alle elezioni europee, rispetto alla composizione odierna, il gruppo dei conservatori dovrebbe guadagnare venti seggi e quello di Identità e Democrazia – cui appartiene la Lega – ventidue, mentre Verdi e Liberali dovrebbero perderne rispettivamente ventiquattro e quindici. Proprio per questa ragione, una ragione brutalmente aritmetica, è certo che nella legislatura continentale 2024-2029 le destre saranno destinate a svolgere un ruolo ben più rilevante che in quella 2019-2024, a cominciare dal processo di formazione della nuova Commissione. Ma la politica non è soltanto aritmetica, e ci sono almeno due ragioni ulteriori per le quali l’ostracismo nei loro confronti si sta visibilmente e rapidamente sgretolando.
La prima ragione è proprio la Russia. L’Unione europea, molto semplicemente, non può permettersi di non mobilitare ogni possibile risorsa politica interna nel momento in cui si trova ad affrontare una sfida esistenziale esterna. Lo ha detto con chiarezza qualche giorno fa il Presidente del Consiglio europeo, il liberale Charles Michel: con le forze di destra che hanno preso una posizione pro-Ucraina si potrà e dovrà parlare. È ben possibile allora che nel prossimo parlamento l’attuale divisione fra Conservatori e Identità e Democrazia sia destinata a esser ripensata, in pro di una nuova articolazione che, sulla base delle scelte di politica estera, separerà una destra che partecipa al gioco da una che ne è esclusa.
La seconda ragione è che, di fronte alle molteplici sfide della nostra epoca, è in corso un ripensamento ampio e diffuso su priorità e meccanismi dell’integrazione europea. A riconsiderare l’Europa è stata innanzitutto la destra, e anche per questo è diventato più difficile demonizzarla: con l’eccezione dei tedeschi di Alternative für Deutschland, da quelle parti nessuno parla più di uscire dall’Unione – semmai di cambiarla e rafforzarla. Ma la stanno ripensando anche le forze politiche tradizionali, che diversamente da qualche anno fa devono confrontarsi oggi con un’agenda continentale dominata da temi “duri”: sicurezza, difesa, controllo dei flussi migratori, accesso alle fonti energetiche e alle materie prime, sovranità economica e tecnologica. Certo, resta viva la divisione fra i sostenitori di un’Europa gollista delle patrie e quelli di un’integrazione sovranazionale più profonda.
Ma vien da chiedersi se non si tratti di una divisione soprattutto teorica, ormai, destinata a esser superata pragmaticamente, sulla spinta delle tante emergenze in corso, con soluzioni di compromesso che sappiano combinare le due logiche. Come è avvenuto per certi versi col Next Generation EU.
Ieri a Madrid Marine Le Pen ha detto: «Non è questione di persone ma di libertà, Meloni e Salvini hanno a cuore la libertà. Non c’è dubbio che ci siano delle convergenze per la libertà dei popoli che vivono in Europa». Libertà è una parola centrale per l’Occidente, ma è pure spaventosamente polisemica: la si è definita, la si può definire, in mille modi differenti. L’eterogeneità della destra globale dalla quale siamo partiti è un segno di quanto si stia faticando, da quelle parti, a prender posizione rispetto alla crisi dell’Occidente e del suo rapporto col resto del mondo – la vera sfida della nostra epoca. Ma quell’eterogeneità va letta dentro un processo di riallineamento ben più generale al quale non può sottrarsi nessuno, che sta mettendo in difficoltà tutte le famiglie politiche, e del quale anche il ripensamento dell’integrazione europea è soltanto un tassello. Il mondo è cambiato, e stanno cambiando rapidamente le coordinate del conflitto politico. In quelle coordinate, la nuova destra globale si candida a giocare un ruolo da protagonista.