L’Unicef aggiorna il bilancio delle vittime nel Mediterraneo centrale Il dramma dei barconi da Tunisia e Libia. L’ultimo episodio martedì notte
Medici, operai, magari astronauti, chissà se scrittori o poeti, magari campioni. O, semplicemente, vivi. Solo sulla rotta del Mediterraneo centrale che da Libia e Tunisia punta all’Italia, ogni settimana undici bambini, che della propria vita avrebbero potuto fare qualsiasi cosa, vengono mangiati dal mare. E diventano numeri, senza nome e senza storia, a volte neanche una tomba. Secondo l’Unicef, da gennaio a oggi sono 289 i piccoli che le onde hanno preso, per poi risputarli su una spiaggia o lasciarli a galleggiare in attesa di una mano pietosa in grado di raccoglierli.
Al largo di Sfax, nella notte fra martedì e mercoledì,è toccato ai pescatori. Sono intervenuti in soccorso di un guscio di ferro su cui viaggiavano in quarantasei, solo in quindici si sono salvati. Fra loro, non c’era nessuno dei sette bambini che erano a bordo. Di due — una piccolina di un paio d’anni e un bimbo forse di poco più grande — è stato recuperato nient’altro che il cadavere. Una macchia indistinta in un mare che di notte è una colla nera che inganna, spaventa, confonde.
«Heyda, heyda » urla un pescatore in un video di quel salvataggio che
Repubblica ha visionato e verificato, ma ha scelto di non mostrare. «Eccolo, eccolo», scandisce, esattamente come quando viene avvistato il tonno che permette all’equipaggio di sopravvivere. Ma dal mare – si vede in quel filmato – viene su un bimbo, braccia e gambe magre e lunghe sinonimo di un’altezza che non raggiungerà mai. Di altri cinque invece non si è trovata traccia, non c’è un nome, non c’è una storia. Non si sa neanche se ci sia ancora qualcuno, genitore o parente, che ne possa tramandare il ricordo. Il più delle volte è l’unica cosa che resta, insieme alla speranza di essersi sbagliati.
«Trovate mio figlio, per favore. Siamo caduti in acqua, sono riuscito a soccorrere i due più grandi, lui l’ho perso di vista», ripete da giorni dall’altra parte del mare Jamid Sahid Mansarè. È ricoverato all’ospedale Civico di Palermo dopo il naufragio a cui a stento è sopravvissuto e in cui ha perso il più piccolo dei suoi bambini. «Vi prego, mi basta anche solo salutarlo». Sulle due sponde del Mediterraneo è una richiesta che riverbera come un’eco.
Wadija si è anche stancata di ripeterla a organizzazioni internazionali e autorità di Sfax. A forza di mendicare almeno il corpo di due delle sue bambine, Mariam e Blessing, non ha più neanche la forza di sperare. Eppure le aveva salvate, era riuscita a strapparle alle onde, che le avevano portato via un’altra bimba e il fratello, anche lui a stento adolescente. Quando la motovedetta della Garde nationale è arrivata respiravano ancora. Sono morte poco dopo sul ponte. Di freddo, di acqua che invade i polmoni e che nessuno sa come tirar fuori perché a bordo assistenza medica non ce n’è. Al porto di Sfax, ha raccontato all’associazione Mem.Med. che ha tentato di supportarla, l’ultimo scempio. I corpi delle due bambine sono stati lasciati sulla banchina per ore, per poi essere portati via su un furgone. Di loro non ha saputo più nulla. Da allora sono passati mesi e lei sembra aver perso anche la forza di cercare.
Aminata invece no. Ancora lo sente quel neonato che aveva fra le braccia, ricorda quando gliel’hanno strappato. «Quelli della Garde nationale mi hanno detto che era morto, ma io non lo so, non ricordo, era tutto confuso», ha spiegato agli attivisti che la stanno aiutando nella ricerca. Si è svegliata in ospedale, il suo bimbo non c’era più. Ora chiede che le indichino almeno una tomba, una qualsiasi sepoltura, se mai c’è stata, su cui poterlo piangere.
Tra assenza e attesa, il ricordo si impasta con il rimpianto di non essere riusciti a fare abbastanza per impedire quel lutto. E diventa addirittura negazione. «Mia moglie sta dormendo, è stanca dopo il viaggio. Il bambino? È scivolato», ha continuato a ripetere per giorni agli psicologi di Medici senza frontiere un uomo arrivato qualche mese fa a Lampedusa, dopo aver visto morire decine di compagni. Avevano perso la rotta e li ha portati via il freddo, la fame, la sete. Fra loro c’era anche sua moglie, che quando si è spenta ha aperto le braccia e perso fra le onde il neonato di quattro mesi che stringeva. Di loro rimane la storia, di tanti altri neanche quello. Perché di barchini che si inabissano lungo la rotta che da Libia e Tunisia porta all’Europa, ce ne sono a decine ma non di tutti si ha notizia. Perché a bordo non tutti si conoscono e a volte chi ti sta vicino in barca è solo un tizio con la tua stessa paura. Perché a volte, le onde restituiscono solo un corpo.
Infagottata in una tutina rosa, una bimba senza vita è rimasta da sola a galleggiare al largo di Sfax. L’ha trovata la Garde national. Di lei hanno solo potuto ipotizzare che avesse meno di tre anni. «Bisogna fare di più per creare percorsi sicuri e legali per l’accesso dei bambini al diritto d’asilo, rafforzando al contempo le azioni per salvare vite in mare», chiede il direttore generale dell’Unicef, Catherine Russell. «Operando a Lampedusa, purtroppo di storie come queste ne vediamo a decine — dice Giovanna Di Benedetto di Save the Children — è necessaria e urgente una missione europea di soccorso in mare e la risoluzione approvata a Bruxelles va nella giusta direzione. Adesso dalle parole si passi ai fatti».