Guinea fuori gioco per la Coppa d’Africa 2025: le infrastrutture non sono pronte
6 Ottobre 2022Petrolio russo, prove di contrabbando tra Baltico e Mar Nero
6 Ottobre 2022Un dialogo di Alisa Del Re ed Enrica Rigo sul rapporto tra migrazioni e politiche di genere. Perché i confini non moltiplicano solo i regimi di lavoro ma anche quelli della riproduzione sociale
Questo dialogo tra Alisa Del Re, professoressa di Scienza politica all’Università di Padova, ed Enrica Rigo, docente di Filosofia del diritto all’Università di Roma e coordinatrice della Clinica del diritto dell’immigrazione e della cittadinanza, nasce da una discussione sul recente libro di Enrica Rigo, La straniera (Carocci 2022), utile per affrontare alcuni nodi politici e teorici riguardanti il rapporto tra migrazioni, riproduzione sociale e politiche di genere.
Alisa Del Re: Le e i migranti sono soggetti indispensabili in un’analisi dell’oggi mentre è tornata acuta nel dibattito elettorale la questione della loro «invasione», anche se vengono differentemente considerati se di pelle bianca e provenienti dalla mitteleuropa oppure coloured e sbarcati dal mare. Queste differenziazioni (e discriminazioni) tracciano altri confini, oltre a quelli degli stati che includono ed escludono i e le migranti con linee di genere, razza e classe sociale.
Usando un punto di vista sociologico, mi sono chiesta se l’analisi dell’accoglienza o del respingimento dei differenti percorsi relativi alle varie provenienze delle migranti possa far delineare quadri diversi. Filippine, sudamericane, arabe, africane, donne provenienti dall’Europa dell’est: è indubbio che ci siano stati progetti individuali e collettivi dissimili associati a comportamenti distinti nell’accoglienza e nel trattamento, oltre alle differenti «destinazioni d’uso» di una forza lavoro sfruttata principalmente nel settore della riproduzione sociale. Come è possibile che complesse storie di vita differenziate si possano unificare sotto l’unica voce «migranti»? Per fare solo un piccolo esempio: le filippine difficilmente sono state associate alla tratta prostituzionale, elemento che spesso accomuna molte vicende delle migranti dei paesi dell’est Europa. Tutto ciò viene appiattito nel diritto? Credo sia importante riconoscere le esperienze plurali delle donne (ed evitare la definizione di «femminilizzazione delle migrazioni»).
Enrica Rigo: Come chiarisco in più passaggi, La straniera – che dà il titolo al mio libro – non fa riferimento a un’esperienza paradigmatica delle migrazioni al femminile, ma è piuttosto un punto di osservazione sul diritto, lo strumento incarnato di un’epistemologia critica e femminista. In questa prospettiva, se è vero che il diritto appiattisce le esperienze plurali delle donne, è forse più interessante guardare a come queste esperienze mettano in discussione le strutture stesse del diritto, le dicotomie sulle quali si fonda. Si pensi a come la regolamentazione della mobilità umana si strutturi attorno alla distinzione concettuale tra produzione e riproduzione sociale, riflessa nelle norme sul ricongiungimento familiare o in quelle sulla circolazione dei lavoratori (al maschile), ragione per cui il lavoro riproduttivo e di cura non pagato non trova riconoscimento giuridico e politico al fine dell’ingresso o della circolazione delle persone.
La rilettura in una chiave di genere dell’immagine offerta da George Simmel – dello straniero che oggi viene e domani rimane – è l’esito di un’intuizione tanto semplice quanto nodale: lo straniero che rimane non può che essere una straniera. Non tanto per il sesso a cui appartiene biologicamente, ma perché porta necessariamente con sé lo spazio della propria riproduzione. La produzione non può essere separata dalle relazioni che riproducono e sostengono la vita; si tratta di una finzione del diritto e della politica, che il genere destabilizza continuamente.
Quella di genere è una prospettiva fondamentale per leggere e decostruire i regimi di mobilità, a partire dalla stessa distinzione tra migrazioni economiche e forzate. Per tornare agli esempi di esperienze plurali e irriducibili: il libro parla soprattutto del confine mediterraneo e delle donne che lo hanno attraversato a partire dalla lunga estate delle migrazioni del 2015. In quegli stessi anni a far schizzare in alto le statistiche sulle donne richiedenti asilo c’erano però anche le donne ucraine. Donne già presenti in Italia come lavoratrici domestiche, ma che hanno avuto la possibilità di regolarizzare la propria posizione solo attraverso la protezione umanitaria. In altre parole, il diritto per riconoscerle le ha qualificate formalmente come migrazioni forzate e transitorie, pur se «messe al lavoro». Oggi la situazione è apparentemente rovesciata. La guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina ci ha mostrato che una diversa gestione delle migrazioni è possibile, così come la libertà di circolazione dei richiedenti asilo in Europa. Ma quanto conta il fatto che quella dei profughi ucraini non sia una migrazione destinata a rimanere o, per lo meno, che non venga costruita discorsivamente come tale? E ancora, quanto questa diversa percezione rafforza altri confini? Si pensi al massacro di Melilla del 24 giugno scorso. Anche in questo caso il genere offre una chiave di lettura delle dinamiche dei confini che non è scontata e non si limita a guardare alle migrazioni al femminile.
Alisa Del Re: L’appartenenza a un sesso di per sé non qualifica la condizione. Per stabilire i requisiti e le posizioni di subordinazione è molto più sensato e corretto ricorrere al gruppo sociale «donne» in una società data (così come indicato peraltro dalle linee guida internazionali Unhcr), dove sovente si rilevano specifiche persecuzioni legate al sesso: mutilazioni genitali, obbligo di matrimonio con consanguineo in caso di vedovanza ecc. Ma anche sul terreno dell’accoglienza: la crescente esternalizzazione a lavoratrici migranti del lavoro riproduttivo privato di cura crea nuove gerarchie di subordinazione tra donne, con le native che diventano padrone di vite altrui per poter esercitare esse stesse il diritto a un lavoro salariato esterno ai compiti domestici.
Il diritto distingue tra migrazioni economiche e forzate, come se cercare di vivere una vita degna fuggendo la miseria o semplicemente immaginando un modo diverso di vivere fosse una migrazione «economica», diversa da chi fugge dalle guerre. Stabilire per le donne che quello che non è «guerra» o pericolo immediato di vita non vale per giustificare l’accoglienza (anche se sono costumi sociali patriarcali violenti e discriminatori contro le donne) è far scivolare l’emigrazione da forzata a economica in modo da non consentire l’asilo. Quindi è essenziale smascherare la falsa neutralità dei regimi di controllo delle migrazioni, facendo emergere la natura sessuata dei confini. La protezione internazionale del rifugiato è stata costruita attorno a una distinzione tra sfera pubblica e sfera privata che esclude le donne (ad esempio esclude la violenza domestica o sessuale).
Puoi chiarire questo incrocio tra riproduzione sociale, genere e razzismo?
Enrica Rigo: Nel mio libro, riproduzione sociale, genere e razzismo provano a «mettere all’opera» l’intersezionalità, più che darne una definizione univoca o discuterne le diverse accezioni. Sicuramente le procedure di riconoscimento della protezione internazionale sono state e continuano a essere un terreno di contesa di questa «messa all’opera»; un campo di tensione dove in gioco sono le stesse nozioni di genere e di violenza basata sul genere. Si tende a guardare al diritto come qualcosa di «dato», come un insieme di regole che si applicano, quasi automaticamente, a fronte di situazioni determinate. Ma le cose non stanno così: il diritto è un processo di attribuzione di senso e, allo stesso tempo, un terreno continuo di sfida sul senso. Da alcuni anni è in corso una vera e propria battaglia, sia nelle commissioni territoriali per il riconoscimento dell’asilo sia nei tribunali, sulla violenza legata alla tratta. A contendersi il campo una visione della tratta come violenza di matrice criminale, e dunque un’eccezione da attribuire a un universo valoriale «altro», o all’opposto la possibilità di ricondurla alla strutturalità della violenza contro le donne e basata sul genere. Non c’è dubbio che al centro di questa contesa ci siano le donne con i loro corpi, ma in gioco c’è anche il significato da attribuire al genere come specificazione di un «determinato gruppo sociale» per il riconoscimento della protezione internazionale. È in questa attribuzione di senso che diventa essenziale mettere all’opera l’intersezionalità tra genere, razza e regimi di riproduzione sociale (inevitabilmente legati alle gerarchie di classe): si tratta di una sfida politica e non semplicemente sull’applicazione più o meno corretta delle norme.
Tu rilevi giustamente che migrazioni forzate ed economiche implicano una strana gerarchia. Da un lato, le migrazioni forzate hanno priorità nell’accesso al territorio, dall’altro, la violenza che le qualifica legittima un intervento pervasivo del diritto, che non riguarda più solo il controllo della mobilità, ma si estende alla vita e alle relazioni che la sostengono. È soprattutto in questo senso che i confini si mostrano come sessuati. Si pensi a come, negli anni recenti, il discorso sulla vulnerabilità sia diventato un vero e proprio dispositivo di governo del confine e quale ruolo giochi il genere in questo discorso, incluse le identità e le espressioni di genere. Durante l’estate ero a Lampedusa per un osservatorio sull’hotspot (che è una vera e propria struttura di confinamento). Il criterio della vulnerabilità è diventato il principale apparato discorsivo di «selezione» dei migranti in transito a Lampedusa, naturalmente assieme a quello dei «paesi sicuri» che si propone ufficialmente di mitigare. La vulnerabilità, invece di essere intesa come una condizione che rimanda a relazioni di dipendenza, è ricercata nelle qualità e nelle caratteristiche personali e viene istituzionalizzata dentro percorsi che, più che di riconoscimento, sono di disciplinamento. La necessità di prendere in considerazione il genere nelle procedure di asilo è affermata anche dalla Convenzione di Istanbul, ma il quadro che ho appena tracciato va in una direzione opposta alla riflessione sulla strutturalità della violenza e sulla sua politicizzazione che il movimento femminista ha portato nelle strade e nelle piazze negli ultimi anni. Si tratta di un fronte di contesa aperto, che troppo spesso non viene riconosciuto come tale. A Lampedusa sono l’Alto commissariato per i rifugiati (Unhcr) o l’Agenzia dell’Unione europea per l’asilo (Euaa) a definire cosa siano violenza di genere e vulnerabilità: le stesse agenzie che concorrono a determinare i paesi di origine e transito «sicuri».
Alisa Del Re: La tematica della riproduzione sociale attraversa tutte le argomentazioni del tuo libro. In primo luogo viene segnalata la separazione tra spazio sociale produttivo e spazio della riproduzione sociale, che invece risultano strettamente correlati quando ci si confronta con la riproduzione della vita. Quando si parla di riproduzione sociale bisogna aver chiaro che si tratta della riproduzione dell’umano (corpi, cultura, relazioni, saperi, capacità, ciò che Romano Alquati – Sulla riproduzione della capacità umana vivente (DeriveApprodi 2021) – chiama «capacità umana vivente»), cioè la costituzione di ciò che volgarmente viene chiamato «capitale umano» e che necessita di molti step riproduttivi.Le migrazioni spesso sono lette come una delle modalità della riproduzione della forza lavoro, una costituzione moderna dell’esercito industriale di riserva. Ma si tratta di una forza lavoro che introietta il valore aggiunto dato dalla propria riproduzione altrove, fuori dai confini, talvolta con buoni livelli di istruzione che non vengono adeguatamente riconosciuti.
La riproduzione è integrata e compartecipe della produzione capitalista di valore, quindi di profitto, soggetta allo sfruttamento capitalistico del lavoro perché non si attua senza lavoro. Questo lavoro costituisce la base materiale della forma capitalista della produzione e per questo lo si è pensato come incorporato nei ruoli da sempre attribuiti alle donne, tanto da incarnarne le identità sociali. Si tratta di sottolineare costantemente l’evidenza della concretezza e della fatica del lavoro riproduttivo, lo sguardo sulle condizioni lavorative del prestare cura, le contraddizioni materiali in cui le donne si trovano a vivere quando a esse è imposto un lavoro di cura spesso gratuito, sottovalutato, poco pagato, precario, condizionato da norme essenzialiste, connotato dalla scarsità di risorse e di tempo. Tutti i lavori delle donne – native o migranti – nel settore della produzione o della riproduzione sono sottopagati (il differenziale europeo per genere al 2020 vede la paga oraria per le donne inferiore del 13% a quella degli uomini). Per quanto riguarda le migranti, per la maggior parte impiegate nei settori della riproduzione sociale, spesso si tratta di rapporti di lavoro «al nero», senza contratto né protezione sociale: questo inficia grandemente non solo i termini della loro riproduzione personale ma anche le richieste di regolarizzazione che riguardano le loro scelte di vita. E la dimensione dello sfruttamento risulta macroscopica nell’attività tipicamente riproduttiva qual è il lavoro sessuale.
Un altro elemento da considerare rispetto allo sfruttamento dei e delle migranti riguarda l’economia finanziaria globale. Debiti morali con le famiglie o rimesse al villaggio sono comuni a molti migranti. Tali debiti condannano i lavoratori e le lavoratrici migranti a un circolo di indebitamento che li rende socialmente ed economicamente vulnerabili. Per fare un esempio concreto, le donne filippine migranti e le loro rimesse hanno compensato dagli anni Settanta in poi alla mancanza, sia in Italia che nelle Filippine di adeguati servizi alle famiglie native. La donna filippina migrante è stata per lunghi anni una collaboratrice familiare per la famiglia italiana, una lavoratrice del settore terziario per la società italiana, una cittadina delle Filippine e un elemento trainante dell’economia filippina.
Puoi spiegare meglio l’affermazione secondo cui la triangolazione tra patriarcato, capitalismo e colonialismo tiene in equilibrio l’attuale modo di produzione su scala globale e si alimenta grazie a una strategia di continue disgregazioni e intromissioni nella gestione delle vite altrui?
Enrica Rigo: Le esemplificazioni che fai articolano già egregiamente la triangolazione tra patriarcato, capitalismo e colonialismo nel contemporaneo modo di produzione su scala globale. Una delle tesi del mio libro è che i confini non moltiplicano solo i regimi del lavoro ma anche quelli della riproduzione sociale. Ritengo che questa sia una prospettiva essenziale per comprendere come oggi si declini lo sfruttamento. Sono regimi coercitivi di riproduzione sociale quelli delle lavoratrici h24 costrette alla coabitazione con i datori di lavoro, ma lo sono anche quelli dei ghetti autocostruiti dai braccianti migranti impiegati nella raccolta agricola. Abitare nel ghetto non è la semplice conseguenza della compressione dei salari o di relazioni di abuso, ma è una condizione compartecipe del modo di produzione: è grazie a questa esternalizzazione dei costi di riproduzione della forza lavoro rispetto alla filiera produttiva che il pomodoro può continuare a essere raccolto a 3 euro al cassone. Tu osservi giustamente che la forza lavoro migrante introietta il valore aggiunto dato dalla propria riproduzione altrove. Non si tratta di un «altrove» posto necessariamente fuori dai confini, ma piuttosto di un «altrove» che i confini sono in grado di riprodurre anche qui: nei ghetti dei braccianti, negli insediamenti urbani informali, nei regimi di coabitazione coatta delle lavoratrici domestiche, ma anche nei centri di accoglienza per la ricezione delle cosiddette migrazioni forzate. Allo stesso tempo è proprio la triangolazione tra patriarcato, capitalismo e la matrice coloniale del razzismo che consente quella razzializzazione della vita per cui il confinamento è diventato una modalità ordinaria di riproduzione della vita delle e dei migranti. Da questo punto di vista, le isole greche trasformate in campi di detenzione a cielo aperto o i lager libici non sono estranei all’attuale modo di produzione capitalistico, ma rientrano perfettamente in questa triangolazione.
Nel libro esemplifico i limiti del diritto a cogliere lo sfruttamento utilizzando l’esempio della tratta a scopo di sfruttamento della prostituzione. Molte delle donne che ho incontrato hanno descritto la propria attività utilizzando l’espressione «I am begging» (faccio l’elemosina). Al di là delle ragioni per cui la utilizzano, mi colpisce il ricorso a quest’espressione perché restituisce il nesso tra il capitalismo estrattivo e la compressione della vita, e mostra come il controllo della mobilità sia parte essenziale di questo processo di compressione ed espropriazione. Da un lato, la tratta produce i suoi profitti grazie alla compressione dei costi e dei processi di riproduzione della vita su una scala transnazionale; dall’altro a essere messa a valore ed espropriata è proprio l’istanza di libertà e affrancamento dalla violenza che le donne esercitano attraversando i confini.
Alisa Del Re: Come dice Ida Dominijanni«se ognuna è in primo luogo una donna nessuna è soltanto una donna e le appartenenze, politiche nonché sociali e culturali, contano». E contano ancora di più se si sommano gli effetti discriminatori delle diverse appartenenze nei percorsi delle migranti. L’intersezione tra il genere e altre dimensioni della discriminazione è stata adottata dal femminismo transnazionale prendendo in considerazione la complessità dei rapporti che legano il sessismo, il razzismo, l’omotransfobia e il classismo. Viene assunta una logica universalistica quando si investono grandi questioni di giustizia di genere, in particolare l’opposizione al regime dei confini.
Nel tuo testo si mette in evidenza il nesso tra libertà di movimento e vita, legato alla sfida che la salvaguardia e la riproduzione della vita pongono alle logiche politiche ed economiche dei singoli stati. Un altro elemento che permea le analisi del testo è la presa in considerazione delle lotte dei e delle migranti contro lo sfruttamento e le proprie condizioni di vita. Lotte che oggi si strutturano attorno alla riproduzione sociale (es. migranti che richiedono il diritto di residenza anche per chi risiede in alloggi informali). Viene sottolineato il passaggio dal modello di cittadinanza egualitaria e inclusiva a carattere espansivo a un modello in cui si creano condizioni di vulnerabilità e di coazione della volontà e di sfruttamento che integrano persino condizioni penalmente rilevanti (lavoro forzato, schiavitù, sfruttamento della prostituzione). Lo sfruttamento mostra così un doppio volto, quello dell’estrazione di valore da coloro che rendiamo vulnerabili, e quello del comando, della subordinazione e della soggezione, che lo sottraggono a una lettura economicista e lo indicano invece come un rapporto prettamente politico. Quindi si tratta di lotte politiche in grado di modificare anche il quadro interpretativo del diritto, o di costringere il diritto a modificarsi.
Enrica Rigo: Quello delle lotte è un punto centrale anche per mettere a tema l’intersezionalita che, per riprendere Kimberlé Crenshaw, ha sempre una dimensione sia strutturale che politica. La dimensione politica è riferita, appunto, al momento rivendicativo, alla sfida che pongono le lotte, più o meno organizzate, e alle strategie di resistenza contro le forme strutturali dell’oppressione. Quella per la libertà di movimento è sicuramente una delle lotte centrali del nostro tempo. La vera e propria guerra che le politiche di confine hanno messo in campo contro i migranti ne ha cambiato il senso: non si tratta più di un’alternativa tra inclusione ed esclusione, di bilanciare gli interessi di chi accoglie e chi viene accolto. Le migliaia di morti ai confini (oltre 25.000 dal 2014 nel solo Mediteranneo) spostano radicalmente i termini delle argomentazioni sia del protezionismo nazional-liberale che di quello social-democratico. Penso si possa concordare con il filosofo camerunense Achille Mbembe quando afferma che «essere vivi o sopravvivere» coincide sempre più con la capacità di muoversi. In gioco non c’è solo la difesa di una vita biologica, che può essere semplicemente «salvata», bensì la capacità di decidere sulla propria vita, su dove e come riprodurla. La lotta per la libertà di movimento è, da questo punto di vista, sia una pratica decoloniale che antipatriarcale.
Vi è un ultimo punto sulle lotte che mi sta a cuore e che riguarda la nostra capacità di riconoscerne la radicalità. Tu osservi giustamente che le lotte delle e dei migranti alludono a una dimensione universalistica. Aggiungerei – richiamando Etienne Balibar – che l’universalismo ha luoghi e condizioni di esistenza o, in altre parole, è sempre di «parte». Il punto è declinarlo dalla parte delle e dei subalterni. Se si fa l’esempio della rivendicazione di accesso formale alla cittadinanza da parte di chi vi è escluso, è necessario riconoscere che oggi ha assunto una nuova radicalità. A fronte del fallimento del progetto politico europeo e del riemergere dei nazionalismi, la richiesta di cittadinanza assume un significato diverso da quello che poteva avere due decenni fa. In Italia, in particolare l’esclusione dalle cittadinanza di fasce di popolazione ha ormai una matrice e giustificazioni apertamente razziste. Ed è in questo quadro che, per esempio, va letta la rivendicazione di cittadinanza portata avanti dalle figlie e figli delle migrazioni. La sfida è anche nel tracciare i nessi tra queste lotte (che non di rado sono invece strumentalmente rappresentate in opposizione). Io penso che quella per la cittadinanza debba essere una declinazione della lotta per la libertà di movimento e che, in entrambi i casi, si tratti di lotte che si strutturano attorno alla riproduzione sociale: attorno alla sfida che la salvaguardia e la riproduzione della vita pongono alle logiche politiche ed economiche degli Stati.
*Alisa Del Re è professoressa di Scienza politica all’Università di Padova. Enrica Rigo insegna Filosofia del diritto all’Università di Roma ed è coordinatrice della Clinica del diritto dell’immigrazione e della cittadinanza. Di recente ha scritto La straniera (Carocci 2022).