il dibattito
Federico Fornaro
Il dibattito che si riapre puntualmente sul significato e l’attualità delle celebrazioni del 25 aprile, quest’anno si è arricchito della censura Rai al monologo di Antonio Scurati e della testarda ostinazione della presidente del Consiglio in carica, peraltro in buona compagnia, nel non riconoscere il valore fondante per la nostra democrazia repubblicana dell’antifascismo.
In verità da molto tempo è in atto un sotterraneo, ma non per questo meno insidioso, tentativo di riscrittura revisionista della storia del ventennio fascista, che sfrutta abilmente la diffusione, per dirla con Adriano Prosperi, di una “nuova malattia sociale”, quella dell’oblio della memoria.
Sfruttando il naturale trascorre del tempo e la progressiva scomparsa dei testimoni, stiamo assistendo, infatti, alla diffusione nella società italiana di una crescente preferenza per il dimenticare, accompagnata dall’immissione del dibattito pubblico di notizie deformate o parziali, abilmente veicolate, in particolare, sul web.
Siamo in presenza di una strategia concentrica che sta provocando un avvelenamento dei “pozzi della conoscenza” con una preoccupante alterazione nel rapporto della nostra memoria collettiva con il fascismo e la storia del Novecento più in generale, se è vero, che una ricerca condotta da Eurispes Italia nel 2020, ci restituisce la drammatica fotografia secondo cui il 15,6% degli intervistati crede che la Shoah, lo sterminio degli ebrei, non sia mai esistita. Nel 2004, questa percentuale era limitata al 2,7.
Corriamo seriamente il rischio di interrompere l’ideale staffetta generazionale di una corretta trasmissione della memoria e di perdere così alla causa della democrazia quella fetta di società che ha sviluppato nei confronti del fascismo un giudizio di sostanziale indifferenza, quando di non dichiarata e bonaria assoluzione delle sue colpe e responsabilità.
L’appiattimento culturale, la ritrosia diffusa nella scuola (e non solo) ad affrontare un nodo assai intricato come quello del rapporto degli italiani con fascismo/antifascismo, si sommano alla proliferazione di messaggi subdolamente semplificatori, più insidiosi dello stesso negazionismo.
Periodicamente nel dibattito pubblico rispunta una versione riduzionista del regime fascista, assimilato a una sorta di «tumore benigno» contrapposto a quello “maligno” rappresentato dal nazismo e dallo stalinismo; un totalitarismo all’italiana meno implacabile e letale: un processo di edulcorazione del fascismo fondato su una contro narrazione rispetto alla storiografia tradizionale che mira a sminuire la natura totalitaria e violenta della dittatura nostrana (con il corollario di un Mussolini “buono” fino alle leggi razziali del 1938) che arriva da lontano e a cui diedero un iniziale contributo le penne taglienti di Leo Longanesi e di Indro Montanelli, già dagli anni ’50 del secolo scorso.
Alla domanda, tutt’altro che retorica, su chi è fascista oggi, Emilio Gentile ha risposto qualche anno fa circoscrivendo molto nettamente i confini a «chi si considera erede del fascismo storico, milita in organizzazioni che si richiamano al fascismo storico, aspira a realizzare una concezione fascista della nazione e dello Stato, non necessariamente identico allo Stato mussoliniano. Inoltre è fascista chiunque ostenta idee, linguaggi, simboli e gesti che erano tipici del fascismo italiano».
Nell’Italia di oggi a questa descrizione corrisponde una esigua minoranza, ma ancora una volta nella storia patria risulta molto estesa la cosiddetta “zona grigia” dell’indifferenza.
Il pericolo reale per la democrazia contemporanea, infatti non si annida tanto nei gruppuscoli autoreferenziali del neofascismo, che domenica scorsa hanno inscenato una patetica quanto inquietante manifestazione nei luoghi in cui venne prima catturato e poi giustiziato Mussolini il 28 aprile 1945, ma piuttosto dalla riscrittura revisionista della nostra storia nazionale, con lo svilimento del ruolo della Resistenza e dell’antifascismo, che spesso sfocia nell’aperta denigrazione.
Se da un lato, occorre avere il coraggio e l’intelligenza di stigmatizzare, come ammoniva spesso Vittorio Foa, «il vezzo di chiamare fascista ogni brutta cosa che ci appare davanti, con il risultato di oscurarne la comprensione» e di non dimenticare che l’Italia ha sempre vissuto (e continuerà a farlo) «in modo intrecciato e sovrapposto il suo rapporto con la storia e la memoria del fascismo»; al tempo stesso appare necessario ricordarsi sempre che i pericoli maggiori arrivano, come ha scritto Sergio Luzzatto, «dal consentire che la storia del Novecento anneghi nel mare dell’indistinzione».
In questa prospettiva il centenario dell’assassinio di Giacomo Matteotti (10 giugno 1924), il martire dell’antifascismo per eccellenza, rappresenta un’occasione unica e irripetibile per rimettere in circolo nel dibattito pubblico una corretta riflessione su cosa fu realmente il fascismo che non può e non deve essere sprecata.
L’intera esistenza di Matteotti e non solo la sua tragica fine, la storia del “suo” Polesine, rappresentano una inequivocabile testimonianza che non vi fu, come qualcuno vorrebbe far credere, una dittatura all’acqua di rose fino al 1938 e poi un “Mussolini cattivo” a causa delle deleterie amicizie con Hitler.
No. E ancora no. La violenza sistematica, la sopraffazione e la feroce negazione del diritto al dissenso, il disprezzo per la democrazia parlamentare e per lo stesso valore della vita, erano parte fondamentale e identitaria del fascismo fin dalla sua costituzione nel marzo 1919.
Non ci furono, perciò, due fasi distinte nel ventennio mussoliniano, ma un unico disegno unitario alimentato da una visione culturale e politica caratterizzata dalla violenza, dalla negazione del valore della democrazia, dalla sopraffazione sistematica e dal razzismo che l’Italia esportò in molte parti del mondo.
Ecco perché, nonostante siano passati cento anni, il coraggio, l’intransigenza morale, l’analisi sulla natura del fascismo, di Matteotti e soprattutto il suo coerente antifascismo possono dire ancora molto all’Italia di oggi.