di Riccardo Luna
Lunedì parlando di Jannik Sinner, dei suoi fantastici genitori, della libertà dei giovani ci eravamo chiesti: ma il bambino Jannik oltre alla racchetta da tennis aveva per le mani anche uno smartphone, come accade purtroppo a moltissimi altri bambini? Oppure no? E l’adolescente Sinner, mentre iniziava i primi tornei, stava anche sui social? O pensava solo ad allenarsi? Mercoledì Sinner è venuto a Roma per essere celebrato come merita e in una lunga conferenza stampa ha chiarito i nostri dubbi. Ha detto: «I social non mi piacciono. Non è quella la verità, vedi certe cose ma non sono quelle, uno magari sta male ma sui social si postano solo foto dove va tutto bene. Io personalmente vivo meglio senza e continuerò a fare così».
Sinner in realtà potrebbe anche usarli i social (e infatti il suo ufficio stampa posta le foto dei suoi successi): ha ormai 22 anni, la sua personalità e il suo sistema di valori sono formati e solidi. Il problema c’è prima e riguarda gli adolescenti, il momento più critico della vita di una persona, quando si passa da bambini ad adulti e si deve scegliere che tipo di persona essere nel mondo. È in quel momento che i social sono pericolosi. Non è la paura di un boomer a farmi dire queste cose; non sono un digital champion pentito, ma un genitore preoccupato sì. Chiarisco: la dimensione digitale è formidabile e ha innescato una crescita economica di cui godiamo i frutti; il web ha reso le informazioni immediatamente accessibili a tutti rendendo possibile un processo di democratizzazione delle cultura altrimenti impensabile: e anche i social network, usati bene, sono uno strumento importante per restare connessi con amici e passioni.
All’inizio della rivoluzione digitale ripetevamo un mantra: «Oggi un ragazzino con uno smartphone in mano ha accesso a più informazioni di quelle che aveva il presidente Usa quando mandò il primo uomo sulla Luna». È vero, in teoria; ma poi gli algoritmi della Silicon Valley hanno scelto di far leva sui nostri peggiori sentimenti per fare più soldi, ci mostrano contenuti virali ma scadenti su cui noi puntualmente clicchiamo diventando ogni giorno un po’ peggiori. Questa dinamica della “società dell’attenzione”, che riguarda tutti, anche i siti web dei giornali che si misurano solo per “il volume del traffico”, ha effetti dirompenti sugli adolescenti che vengono esposti a modelli sbagliati. Accanto a questo si verifica un fenomeno largamente sottovalutato: i vari servizi di messaggistica espropriano totalmente i genitori del loro fondamentale ruolo di controllo sui figli. Non sappiamo nulla della loro vita e quando ci capita di guardare nelle loro chat scopriamo di non conoscerli. La miscela di modelli sbagliati e assenza di controllo nell’età in cui siamo più fragili è devastante. Il bambino del mantra invece di finire sulla Luna spesso rischia di finire all’inferno.
Sui social ai giovanissimi abbiamo sbagliato tutto: prima ce lo diciamo e prima iniziano a contenere i danni che stiamo facendo ai nostri figli. Di questa cosa si inizia a prendere consapevolezza persino negli Stati Uniti, dove i social network sono stati inventati: la Camera della Florida la settimana scorsa ha approvato una legge che fissa in 16 anni l’età minima per stare sui social; negli stessi giorni il sindaco di New York ha dichiarato solennemente i social un problema di salute pubblica per i danni che stanno facendo ai nostri figli. E l’altro ieri a Washington il capo di Meta, Mark Zuckerberg, che gestisce Facebook, Instagram e Whatsapp, messo davanti ai genitori di alcune giovani vittime dei social, con molta fatica ha chiesto pubblicamente scusa.
Hanno messo il loro profitto davanti alla salute dei nostri figli: potremo mai perdonarli? Non è troppo tardi per ammettere un clamoroso errore di valutazione collettiva. Ma dobbiamo cambiare strada e dobbiamo farlo adesso.