Quando l’Atena nera scardinò la Grecia ‘infanzia dell’Europa’
28 Agosto 2022Brillantina, dispotismo del merito, cultura borghese e altri accidenti
28 Agosto 2022melissa panariello
Al centro del residence che mio nonno aveva contribuito a costruire agli inizi degli anni 80, c’era un piccolo anfiteatro quadrato con gli spalti in cemento. Qualcuno diceva che in realtà era stato progettato per diventare una piscina, ma a un certo punto erano finiti i soldi per riempirla d’acqua. Siccome ci trovavamo a cento metri dal mare, separati da una strada stretta che dovevamo ogni mattina attraversare per raggiungere la spiaggia, io pregavo perché le onde arrivassero fino a noi e riempissero naturalmente quella pozza rovente che mai era stata utilizzata come teatro. Roccalumera era un piccolo e grazioso paese fra Catania e Messina e lì ci ho speso le mie estati, una famiglia numerosissima capitanata dai nonni che per farci entrare tutti sapevano ricavare letti anche dai cassetti dei comò. Di notte gli uomini si svegliavano e andavano a pesca con le lampare e li rivedevamo a pranzo, le donne iniziavano a friggere melanzane dalle 10 oppure a friggere loro stesse sotto il sole spalmate di crema Nivea, mentre noi bambine crescevamo senza che nessuno se ne accorgesse sbarazzandoci dei costumi interi in lycra iridescenti e desiderando i nuovi modelli di bikini: triangolini e slip da annodare con fiocchetti sui fianchi. Eravamo passati velocemente dal cantare in coro Hanno ucciso l’uomo ragno, sbagliando tutte le parole, ad ascoltare musica con l’iPod, dal gioco della palla avvelenata allo scambio di bigliettini e lettere romantiche, dal mostrarci serenamente nude dalla vita in su a cercare di nascondere i fianchi con le camicie di jeans, dalle farse alle tragedie: tutto in quell’anfiteatro che, infine, era riuscito ad assolvere al proprio ruolo.
Nei primi anni 2000 io mi sono accorta di non appartenere a niente e a nessuno. Mentre dicevo addio all’infanzia, e lo facevo con un bizzarro rossetto blu spalmato fortissimo sulle labbra, il mondo diceva addio a quasi tutto, entrando anche lui in un’adolescenza senza scampo dove l’innocenza batteva i suoi ultimi colpi e l’arroganza si faceva largo fra aerei schiantati su grattacieli che un tempo portavano al Paradiso e guerre del tutto evitabili. Si diceva addio ai soldi, a come li avevamo conosciuti, e la paghetta andava all’improvviso rinegoziata, perché con cinquemila lire ci compravi una pizza margherita, ma con cinque euro non avresti potuto permetterti nemmeno due Coca-Cola e dunque di più, volevamo di più. Si passava dai riti collettivi a quelli individuali, con Tele+ quasi non avevi più bisogno di andare al cinema, il jingle composto e cantato da Pino Daniele sembrava venire dallo spazio, ma ancora più alieno era internet che iniziava la propria corsa con il modem 56k, con quel tipico suono che sembrava la comunicazione in codice dalla famiglia di ET in ansia per il figlioletto perduto sulla Terra. Eravamo nel futuro, anzi credevamo di essere il futuro, perché il 2001 di Kubrick era infine approdato e anche se eravamo uguali a prima, noi eravamo diversi. Abbiamo atteso le apocalissi del 2000, quando un bug avrebbe dovuto portarci alla rovina entrando nei nostri conti corrente e nei computer di tutti scoprendo i video porno scaricati in 36 giorni con eMule, e io quella notte ero a cena con i miei e dei loro amici e avevo pregato che succedesse, che un meteorite arrivasse a distruggere non dico tutto, ma almeno il nostro tavolo; avevamo atteso poi quella del 2012 come previsto dai Maya millenni prima. Quel giorno, quello della fine del mondo maya, io decisi di passarlo seduta al tavolo di plastica di un chiosco a Roma, leggendo un libro di poesie di Amelia Rosselli. Ero, insomma, sempre seduta quando il mondo doveva finire, perché la fine è meglio attenderla stando comodi.
Il mio addio più feroce, lo strappo più irreparabile, però, avvenne nel 2003. Avevo diciassette anni e il 23 luglio di quell’anno arrivò in libreria un romanzo che avevo scritto nel garage di casa con quel computer di tonalità beige, fra una partita a campo minato e qualche chattata su ICQ. Dopo anni con un taglio alla Natalie Imbruglia, in cui di nascosto cantavo Torn nel salotto di casa, e dopo aver girato per il mondo senza vergogna con ai piedi stivaletti Palladium di tela bianca con tacco quadrato e grosso, ritornavo alla mia identità e facevo pace col fatto che io, con tutta la buona volontà, non sarei mai stata di moda. Nei primi giorni di giugno avevo perciò di nuovo i capelli lunghi di quando ero bambina e le scarpe di vernice, ma col tacco. Ero già io, ma facevo cose impossibili tipo scendere ogni giorno al mare e cercare l’angolo più appartato nel solarium dove correggevo le ultime bozze di quel libro che sarebbe uscito qualche settimana dopo e non volevo distrazioni e nessuno sospettava niente mentre Beyoncé e Jay Z non la finivano di cantare Crazy in Love. Dicevo quanto i duemila siano stati l’adolescenza dell’umanità a partire dal secondo dopoguerra. L’anno zero, cominciato con la ricostruzione di un mondo rovinato dalla morte, ha permesso di ricominciare daccapo, neonati davanti a città tutte da rifare. E se perciò i novanta segnavano la fine dell’innocente età, che termina all’incirca verso gli undici o i dodici anni, nei 2000 ci riscoprivamo tutti più furbi e, soprattutto, riscoprivamo i nostri corpi. Iniziavano così strani esperimenti visibilissimi in estate, fra scogliere solitarie di lava raffreddata e sabbie dorate calpestata da milioni di piedi: vistosi tatuaggi non più simbolo di appartenenza alla malavita, ma attestati di crescita di uomini e donne sempre meno disposti a invecchiare ma ancora con la voglia di trasgredire. E ancora: corna sottopelle e lingue biforcute.
In piena era fantascientifica, giustificati dal fatto che eravamo ormai nel nuovo millennio, ci riscoprivamo alieni. Ma ancora pieni di paure, e di fobie. Quella del 2003 fu l’estate più calda prima di questa, ci fu un grosso blackout che ci lasciò al buio e senza tv per due giorni. È stato l’ultimo momento utile del nostro tempo in cui abbiamo potuto metterci davanti alle candele a raccontarci storie dell’orrore senza distrazioni di sorta, anche se con un blackout di quelle proporzioni sfiderei qualsiasi influencer a riuscire a caricare i propri dispositivi elettronici. Quando viaggiavamo nessuno lo sapeva, perché se anche le macchine fotografiche a pellicola avevano i giorni contati, le macchinette digitali che vedevi al collo di istruite turiste americane, non avevano il potere di diffondersi nell’etere. Dei miei viaggi del primo decennio dei 2000 ho pure qualche documento video: un cargo battente bandiera italiana che sfida l’Oceano Atlantico con me e altri quattro passeggeri a bordo, approdiamo sulle coste d’Africa e poi su quelle sudamericane. Eravamo i rantoli di un mondo già finito, che ci ostinavamo a tenere in piedi. Poi, finito anche quel mondo perché vuoi mettere la comodità dell’aereo ora che hai un bambino e meno soldi a disposizione, è cambiato il modo di viaggiare e, in definitiva, tutto ha smesso di essere viaggio, si sono moltiplicati gli ombrelloni e i tormentoni, hanno iniziato a circolare i gioielli da spiaggia e i consigli su come indossarli. Insomma, dopo gli anni 10 abbiamo smesso di essere adolescenti e siamo diventati adulti mal cresciuti, con gli stessi tatuaggi ormai sbiaditi.