Bacon, elogio dell’abisso
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24 Novembre 2024PARIGI
«Sono un atomo nell’universo», annota sul suo diario nel 1916 Hilma af Klint, poco prima di realizzare una serie di acquerelli che dell’atomo cercano di visualizzare la struttura formale, gli equilibri interni, le proprietà. «L’atomo ha la capacità annullare la lentezza, questa resistenza opposta dalla materia», si legge nella didascalia di uno di quei fogli.
Nei decenni compresi tra la scoperta della radioattività, ratificata nel 1903 dall’assegnazione del Nobel per la Fisica a Becquerel e ai Curie, e le prove di fissione nucleare scalate lungo gli anni trenta, molti artisti recepiscono e rielaborano gli esiti di quelle ricerche, a tratti incrociandole con lo spiritualismo teosofico. A interessarli è la possibilità di rompere il guscio della materia – la sua resistenza, rigidezza, impermeabilità –, per esplorarne gli aspetti invisibili a occhio nudo.
Nel 1904 Loïe Fuller, avvolta in veli cosparsi di sali fluorescenti (e radioattivi), presenta a Pierre e Marie Curie la sua Radium Dance, una coreografia immersa nel buio di cui Pierre Huyghe ha proposto nel 2014 un re-enactement doppiamente spettrale (Dance for Radium, Loïe Fuller for Marie Curie). Nel 1912 Michail Larionov si ispira alle proprietà dei raggi ultravioletti e di quelli radioattivi per definire il sistema pittorico del Raggismo. In Pittura scultura futuriste, nel 1914, Umberto Boccioni descrive elettroni che «roteano nell’atomo a diecine di migliaia, separati gli uni dagli altri come i pianeti del sistema solare». Mentre Hilma af Klint configura le sue variazioni in forma di composizioni di tasselli quadrati, Boccioni utilizza una metafora astronomica per suggerire la circolarità di traiettorie concentriche che sarebbe di lì a poco diventata canonica nella visualizzazione dell’atomo, a partire dal disegno della struttura interna del radio pubblicato da Niels Bohr nel 1923.
Su un diverso versante di sensibilità, in Sguardi sul passato Vassily Kandinsky scrive nel 1913 che la disintegrazione dell’atomo equivale per lui a quella del mondo intero, che tutto improvvisamente gli appare «instabile, incerto, insicuro», come è nell’acquerello Jüngster Tag (Il giorno del Giudizio), che apre il percorso della mostra. Quel Giudizio annunciava l’età atomica, un’espressione che Julia Garimorth e Maria Stavrinaki, curatrici de L’Âge atomique. Les artistes à l’épreuve de l’histoire (al Musée d’Art moderne de Paris fino al 9 febbraio), usano in senso forte, proponendo un’archeologia del presente che riconnette la geopolitica del nostro tempo alla triplice scansione età della pietra, del bronzo, del ferro.
L’inizio di questa nuova epoca è l’alba del 16 luglio 1945, quando in un’area desertica del Nuovo Messico viene fatta esplodere dall’esercito statunitense la prima bomba al plutonio. Cinquanta cineprese filmano il test; le pellicole non si limitano a registrarne le immagini, ma ne subiscono esse stesse le conseguenze, risultando in alcuni punti bruciate, o annerite, o solarizzate da quella incontrollata quantità di luce. Un mese più tardi, a Hiroshima, lo scatto di un fotografo rimasto anonimo documenta l’ombra di un passante fissata sull’asfalto dallo scoppio atomico, sagoma evanescente di un corpo di cui non esistono altre tracce.
L’arte giapponese del dopoguerra si è sviluppata in un contesto politico attraversato da forti tensioni.
La mostra ricorda l’attenzione dedicata agli hibakusha, i sopravvissuti, in una parete dedicata ai loro disegni conservati dall’Hiroshima Peace Memorial Museum, che li cataloga in base all’età dell’autore nell’agosto del 1945, alla data precisa della scena rappresentata, alla distanza dall’epicentro dello scoppio, al lasso di tempo intercorso tra l’evento e la realizzazione del disegno. Ma, a fronte dei possibili usi strumentali dell’insostenibilità di quei traumi, artisti e scrittori, tra cui Oe Kenzaburo nelle sue Note su Hiroshima, reagiscono fin dagli anni sessanta contro quella che può essere definita come una «ingiunzione memoriale» monotematica. Una più ampia varietà di soggetti caratterizza ad esempio il ciclo Scene della bomba atomica, quindici pannelli monumentali disegnati tra il 1950 e il 1982 da Iri e Toshi Maruki, un reportage visionario che parte dalla descrizione delle esplosioni e delle loro conseguenze sui corpi e sulle città per arrivare a toccare i temi del reciproco aiuto, della ricostruzione, della militanza antinucleare. Il gruppo Hi-Red Center, che aveva in Fluxus le sue radici, pratica invece la via dell’azione diretta, mettendo in scena tra il 1963 e il 1964 parodie in forma di happening della progettazione dei rifugi antiatomici, delle rievocazioni belliche, del pacifismo forzato, dei protocolli olimpici in vista di Tokyo 1964.
Tra Europa e Stati Uniti la pittura è stata, negli anni della Guerra fredda, luogo di confronto con le implicazioni psicologiche, etiche e politiche di un possibile conflitto atomico. Barnett Newman definisce questo paradigma nel 1946 in Pagan Void: il pozzo di ombra intorno al quale si organizza la composizione pare ispirato dai fotogrammi registrati solo pochi mesi prima durante il test nucleare in Nuovo Messico, e il «vuoto pagano» evocato dal titolo dichiara la volontà di silenziare la pittura e la sua storia come passaggio necessario verso un possibile nuovo inizio.
La dispersione della forma, la reinvenzione del gesto pittorico, la messa in campo di tensioni energetiche di cui Jackson Pollock dà prova tra 1947 e 1950 sono ricordate in mostra da Number 26 A, Black and White, 1948. Intorno, molte presenze europee si raffrontano in termini più diretti con gli esiti della fisica atomica e della meccanica quantistica: da Isidore Isou a Gustav Metzger, da Yves Klein a Lucio Fontana, da Piero Manzoni ai pittori Nucleari, da Jorn a Pinot Gallizio, qui presente con tre dipinti legati alla realizzazione della Caverna dell’Antimateria del 1959, un ambiente concepito come un riparo – spiega l’artista – offerto alle paure di chi vive nella «preistoria dell’era atomica».
Nel proliferare di immagini e riflessioni provocate dai bombardamenti nucleari, ha avuto modo di affermarsi anche uno specifico emblema iconografico, suggerito – scrivono le curatrici – dalla «analogia morfologica tra testa umana, fungo atomico, globo terrestre e atomo». L’esempio inaugurale è rappresentato, nel 1948, dal fungo biomorfico di The Atom. One World di Richard Pousette-Dart. A metà anni sessanta Henry Moore ricorre a quella stessa omologia quando gli viene commissionata dall’Università di Chicago una scultura per il 25° anniversario della prima attivazione di energia nucleare, condotta da Fermi nel 1942. La presenza controversa del bozzetto Atom Piece – tre elementi verticali sormontati da una cupola levigata – al Museo di Arte contemporanea di Hiroshima suggerisce nel 2011 a Simon Starling il video Project for a Masquerade, una narrazione fittizia che, attraverso l’opera di Moore, unisce la città giapponese a Chicago, luogo di nascita del progetto Manhattan.
Nel 2002 Bruce Conner, che già negli anni settanta aveva utilizzato le riprese realizzate dall’esercito USA durante i test atomici dell’atollo di Bikini per proporne in CROSSROADS un montaggio rallentato, ripetitivo e ipnotico, ritorna sul tema nel photo-collage BOMBHEAD: il corpo di un militare in uniforme sovrastato da un fungo in espansione, che diviene laboratorio pensante di un progetto di potere e disgregazione.
Nel 2021 Luc Tuymans rappresenta in Eternity una forma sferica, rossa e traslucida, che pare sul punto di sciogliersi contro uno sfondo scuro. Il riferimento è alla cupola in vetro utilizzata da Heisenberg per condurre gli esperimenti che avrebbero dovuto portare, nell’ambito dei progetti nucleari hitleriani, alla preparazione della bomba all’idrogeno. Ispirandosi al pensiero dello storico Timothy D. Snyder, Tuymans propone qui un’interpretazione negativa della nozione di eternità, legata non alla costruzione della memoria ma al suo svanire, a una dinamica del vedere che non riesce a mettere a fuoco il suo oggetto, fino a percepire il laboratorio di un’esperienza distruttiva come un oggetto di pura bellezza.