Maurizio Landini , segretario generale della Cgil, il decreto «Primo Maggio», varato quel giorno dal governo, giovedì scorso è diventato legge fra le polemiche delle opposizioni di sinistra. È il primo intervento dell’esecutivo sulle regole del lavoro. È un intervento-manifesto della destra che governa l’Italia?
Basta passare in rassegna i contenuti. È un decreto che allarga il lavoro precario perché reintroduce i voucher e liberalizza i contratti a termine; è contro i poveri, perché l’intervento sul reddito di cittadinanza divide tra poveri e poveri; l’intervento sul cuneo contributivo è temporaneo mentre noi vogliamo diventi strutturale: e soprattutto rende evidente il tentativo del governo di mettere in alternativa qualche beneficio fiscale con gli aumenti salariali dei contratti nazionali. Infatti nel frattempo il governo continua a non mettere un euro sul rinnovo dei contratti nazionali pubblici, scaduti da tempo. Insomma, questo decreto rende ancora più precario il lavoro e non affronta l’emergenza salariale.
Per il governo i salari aumenteranno «quando aumenterà la produttività». Così non è chiusa la questione del salario minimo?
Siamo all’assurdo: nel Dpef il governo ha dichiarato che l’inflazione dal 2022 al 2024 arriverà al 18 per cento. Ma l’inflazione è causata dalle speculazioni e dai rincari delle imprese per tenere alti i profitti, non certo dai salari che devono semplicemente aumentare. Il governo non interviene sugli extraprofitti e sceglie di non tutelare il potere di acquisto. Insomma sceglie di andare contro le persone che per vivere hanno bisogno di lavorare. Che sono le stesse persone che pagano le tasse per tutti.
Secondo lei su cosa scommettono per mantenere la stabilità sociale?
Quando le diseguaglianze aumentano, come sta succedendo, non c’è stabilità sociale. Alla manifestazione di sabato scorso a Roma, quella per la sanità pubblica, abbiamo dimostrato che i tagli alla sanità e la mancanza delle assunzioni necessarie, riguardano tutto il nostro paese. Aggiungo che non intervenire sulla sanità significa favorire una progressiva privatizzazione del sistema sanitario nazionale, insomma mettere in discussione il nostro modello di stato sociale.
Alla vigilia di quell’iniziativa siete stati invitati al ministro della salute Schillaci a un confronto. Ma all’uscita da quell’incontro, lei ha usato parole molto dure. Perché?
Perché è stato un incontro inutile, di quelli che servono al governo per fissare un altro successivo incontro e altri tavoli ai quali comunque non si dà nessuna risposta. Sulla sanità chiediamo cose precise. La prima: invertire la tendenza dei tagli, aumentare la spesa pubblica. Il governo propone da qui al 2025 una riduzione della percentuale di spesa rispetto al Pil, portandola al 6,2 per cento. È una delle spese più basse in Europa, Francia e Germania sono al 9 per cento, per fare un esempio. Chiediamo assunzioni di medici e infermieri, negli ospedali come nei territori, chiediamo di superare livelli di precarietà assurdi e la logica della catena degli appalti e dei subappalti. Non abbiamo avuto risposta. Abbiamo chiesto che si realizzino gli impegni assunti nel Pnrr, le case di comunità e gli ospedali di comunità: ma se non si fanno assunzioni quelle strutture fatte con i soldi pubblici finiranno in mano ai privati. E invece non sappiamo ancora cosa il governo stia facendo. Ed è sotto gli occhi di tutti, o almeno quelli della Corte dei Conti, che del piano sanità ad oggi è stato speso solo l’1 per cento. Abbiamo chiesto che vengano impegnate le risorse per rinnovare i contratti sia del settore pubblico che di quello privato. Anche qui: nessuna risposta, ma ci hanno dato nuovi appuntamenti. Stesso film sulle pensioni: non ci dicono quante risorse metteranno. Così non si cambia la legge Fornero, come avevano promesso in campagna elettorale: perché non si affronta né il problema dei giovani con la pensione di garanzia, né il riconoscimento delle diversità di genere, né si apre la strada alla flessibilità in uscita: siamo di fronte solo a una tattica per prendere tempo.
Fino a quando crede che prenderanno tempo?
Noi non siamo più disponibili ad accettare lo smantellamento del nostro stato sociale. Mettiamo in fila le cose che succedono: il decreto lavoro aumenta la precarietà, sulla sanità aumentano i tagli, sulle pensioni non c’è nessuna volontà di mettere risorse, e sulla riforma fiscale si vuole mettere in discussione il principio della progressività. Aggiungo che dire le tasse sono “pizzo di stato” è uno schiaffo in faccia a chi le tasse le ha sempre pagate. Serve una politica che tassi gli extraprofitti, tassi di più le rendite finanziare e immobiliari e colpisca l’evasione fiscale. E invece non si vede. Per questo la manifestazione di sabato a Roma ha avuto tanto successo, più di quello che ci aspettavamo. Ora lavoriamo a una grande manifestazione il 30 settembre.
«Non siamo più disponibili», dice lei. Vuol dire che preparate lo sciopero generale? Gli altri sindacati sono d’accordo?
Sabato erano presenti tanti soggetti, tante associazioni. E per il 30 settembre ci saranno nuove adesioni. Il 7 e il 10 luglio i sindacati dei metalmeccanici hanno proclamato lo sciopero della categoria sulle politiche industriali. Il 13 luglio c’è lo sciopero unitario nelle ferrovie. È importante l’indicazione del Ces, la Confederazione europea dei sindacati, che promuove giornate di mobilitazione per settembre e ottobre in tutti i paesi europei contro le politiche di austerità, contro la precarietà, per l’aumento dei salari, per la difesa della sanità e della scuola pubblica. Quindi non escludiamo nulla. È il momento di mettere in campo tutti gli strumenti necessari per cambiare le politiche sbagliate del governo, che aumentano le diseguaglianze e peggiorano le condizioni di vita dei lavoratori, dei giovani, delle donne e dei pensionati. Anche perché ricordo che la destra è maggioranza in parlamento ma non nel paese.
Crede? Al momento Giorgia Meloni ha il vento in poppa, i sondaggi ancora la premiano.
Le forze che compongono questo governo hanno raccolto 12 milioni e mezzo di voti, quasi un anno fa, e hanno la maggioranza in parlamento per effetto di una distorsione dovuta alla legge elettorale. Ma ci sono 18 milioni di cittadini italiani che non hanno votato; e altri 15 milioni che hanno votato le forze dell’opposizione. Questa è la realtà dei fatti. E i fatti raccontano una crisi democratica e di rappresentanza, in particolare la rappresentanza del mondo del lavoro, che è quello che tiene in piedi il paese e chiede risposte concrete. Per questo mettere in campo tutti gli strumenti di lotta e di partecipazione che la nostra democrazia consente è oggi il compito primario di un sindacato confederale.
Sul salario minimo c’è un ritardo della sinistra ma anche vostra, del sindacato?
Certo, ritardi ci sono stati, da parte di tutti, ma è il momento di superarli. In Italia il problema sul salario è evidente, anche perché ormai tra le imprese la competizione non è più sui salari bassi. L’obiettivo per noi è avere contratti nazionali che diano gli stessi diritti e le stesse tutele a tutti. Sotto una certa cifra, il salario orario non deve andare, che sia da lavoro subordinato, autonomo o a partita Iva. Insieme a questo serve una legge sulla rappresentanza che dia valore generale ai contratti nazionali e cancelli quelli pirata. È il momento di fare una battaglia nel paese. Anche perché siamo dentro un’emergenza: ogni anno 120 mila giovani, laureati e diplomati, se ne vanno a lavorare in giro per l’Europa.
Ma sul salario minimo non c’è ancora un testo unitario delle opposizioni. E il governo Meloni comunque ha già detto no, sfidando la sinistra a spiegare perché non ha fatto una legge quando governava.
Noi vogliamo dare voce al paese reale contrastando precarietà, aumentando i salari ed estendendo i diritti fondamentali dalla conoscenza alla cura delle persone. Le forze politiche si assumano le loro responsabilità, tutte, sapendo che in questi anni si è prodotta una rottura nella rappresentanza politica del mondo del lavoro.
L’opposizione è divisa, a occhio si può prevedere che se proclamerete lo sciopero generale, si dividerà anche su quello.
Essere uniti è un compito che riguarda le forze politiche. Il nostro compito è unire il mondo del lavoro, cioè dare voce e diritti a tutte le persone che hanno bisogno di lavorare e da qui che può rinascere una diversa idea e pratica della politica.
Perché questo governo di fatto non vuole attuare il Pnrr?
Ci sono ritardi oggettivi, e il rischio molto concreto è di non essere in grado di realizzare quello che è stato promesso in Europa. C’è voluta una pandemia perché l’Unione europea superasse la logica dell’austerità. Ma una cosa deve essere chiara: non realizzare quegli impegni favorisce il ritorno all’austerità. E intanto non fanno neanche le assunzioni che servono a realizzare il Pnrr.
Secondo il governo la disoccupazione diminuisce, e l’occupazione aumenta.
Bisogna guardare bene i numeri, e quale occupazione aumenta. Negli ultimi mesi c’è stata qualche assunzione stabile nei servizi, ma ci sono ancora tre milioni di contratti a termine e tre milioni di part-time involontari, lavoratori e lavoratrice che rimangono poveri pur lavorando. Sei milioni di persone che pur lavorando non arrivano a 10mila euro lordi l’anno. Insomma i contratti a termine, i part-time involontari, il lavoro somministrato non diminuiscono.
Sulle buste paga dei pensionati con le minime è spuntata la voce “aumento pensioni basse”, una specie di “bonus Meloni”.
Qui poi siamo alla propaganda. La 14esima è una conquista del sindacato che risale al 2007, poi migliorata nel 2016. Abbiamo chiesto di estenderla fino a 1500 euro lorde, ma il governo non ci ha risposto. Ma intanto adesso arrivano loro e se la intestano.
Il ministro Matteo Salvini dice: non ci serve chi si siede a un tavolo e già si sa che dirà no. Segretario Landini, ce l’ha con lei.
Se aumentano la precarietà, certo che dico no. O se non aumentano i salari. Ma il punto è che a quel tavolo è il governo che dice no alle richieste delle piattaforme unitarie del sindacato, e non vuole discutere. O ci convoca inutilmente, o ci convoca insieme a presunti sindacati che firmano contratti-pirata, e che non hanno nessuna rappresentanza. Noi siamo il sindacato: giudichiamo i governi per quello che fanno.
La premier Meloni cambia le regole del lavoro facendo a meno di voi sindacati?
Non si vuole riconoscere il ruolo dei sindacati confederali. E non si vuole accettare il ruolo di mediazione sociale che un sindacato confederale ha. Perché introducono leggi che fanno andare indietro il paese: il ministro Salvini ha reintrodotto il subappalto a cascata, ed è una scelta che fa regredire la qualità del lavoro e della vita sociale.
I governi di destra, da Berlusconi in avanti, hanno sempre puntato a spaccare Cgil, Cisl e Uil. Berlusconi ebbe un qualche successo. Così prova a fare anche Meloni?
Il nostro tema è costruire l’unità dei mondi dei lavori. Vediamo crescere una domanda di cambiamento, fin qui inascoltata.
Avete invitato Giorgia Meloni al vostro congresso, è stato un colpo mediatico, anche e forse soprattutto per la presidente, ma dopo quell’evento i rapporti fra Cgil e palazzo Chigi sono rimasti poco cordiali. Pentito di averla accolta sul vostro palco?
No, insisto, noi siamo il sindacato, i governi li giudichiamo per quello che fanno. E questo governo ha scelto un’altra strada rispetto a quella che indicavamo noi. Ha scelto di varare il decreto «Primo maggio» senza discutere con nessuno; continua a fare leggi senza confrontarsi con le richieste del movimento sindacale. No, noi abbiamo fatto quello che dovevamo fare. Loro hanno fatto le loro scelte. Ora riceveranno una risposta chiara dal mondo del lavoro.