La (ri)forma della città
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28 Luglio 2024L’arredo urbano si progetta dal basso: semafori, targhe, marciapiedi orientano le città
Aldo Colonetti
La città è un luogo dove il sapere indiziario permette, al di là delle mappe analogiche e digitali, di orientarci come fossimo degli investigatori alla Sherlock Holmes, alla ricerca non solo di noi stessi ma di ciò che vorremmo raggiungere. Un segnale stradale urbano non è solo utile, ci ricorda appuntamenti passati ed è sempre carico di significati metaforici, anche se la sua funzione primaria è quella di non farci perdere la strada.
Da sempre l’uomo ha cercato di orientarsi, inventando il concetto di mappa, prima verso il cielo stellato, come dimostra una serie di disegni rupestri, ritrovati nelle grotte di Lascaux, in Francia, risalenti al 16.500 a.C. È stato però il filosofo Anassimandro, in epoca storica europea, verso la metà del VI secolo a.C., a inventare la prima carta geografica. Già in Valtellina esisteva un simbolo territoriale, la Rosa Camuna, risalente all’età del ferro (1.000 a.C.) che in seguito fu utilizzata per diventare il «marchio» della Regione Lombardia. Nel 1975 quattro grandi protagonisti del design italiano — Bruno Munari (Milano, 1907-1998), Bob Noorda (Amsterdam, 1927 – Milano, 2010), Roberto Sambonet (Vercelli, 1924 – Milano, 1995), Pino Tovaglia (Milano, 1923-1977) — la ridisegnano. Da allora, ciascuno di noi sa di essere in Lombardia quando vede quel simbolo.
Ecco che cosa significa progettare in uno spazio urbano o, comunque, in un territorio definito: informazioni precise e nello stesso tempo capacità di andare oltre gli aspetti strettamente funzionali, ai fini di una narrazione che è un insieme di storie o, meglio, una sovrapposizione di punti di vista.
Tutto questo per affermare che la città è già di per sé il risultato di una serie di stratificazioni storiche, ciascuna delle quali, pur mantenendo una propria identità, fa parte di una sistema più complesso a cui è necessario riportare ogni segno e ogni oggetto, a partire dai mezzi di trasporto, e anche dai tombini, per evitare il trauma di una Torre di Babele dove ciascuno, parlando la propria lingua, è invaso dall’horror vacui che ci sorprende quando perdiamo il senso dell’orientamento.
Si deve partire da queste considerazioni storiche e antropologiche per parlare di una specializzazione progettuale che sta tra l’urbanistica, l’architettura e il design: il cosiddetto arredo urbano.
In questo contesto nascono binomi simbolici, che hanno una straordinaria forza attrattiva, da tutti i punti di vista: Parigi e la Tour Eiffel, New York e la Statua della Libertà, Roma e il Colosseo, Milano e il grattacielo Pirelli, Pechino e la Città Proibita e così via.
Scriveva già nel 1968 un grande sociologo tedesco, Niklas Luhmann (Luneburgo, Bassa Sassonia, 1927 – Oerlinghausen, Renania Settentrionale-Vestfalia, 1998), erede della Scuola di Francoforte, a proposito della città contemporanea e della necessità di progettare adeguati sistemi di orientamento e di identificazione simbolica: «Le società più complesse devono largamente sostituire alla premesse concrete, premesse astratte, cioè strutture di senso che non hanno più un interlocutore diretto, ma possiedono un potenziale maggiore di alternative e di significati». In sostanza, nella società di massa e nelle nostre città, non è possibile parlare un solo linguaggio: ciascuno è attore e tutti siamo protagonisti, intorno però abbiamo bisogno di un mappa nella quale, pur nelle diversità culturali, ci possiamo riconoscere.
Il nostro Paese, leader mondiale del design, ha avuto grandi maestri da questo punto di vista. È sufficiente menzionarne alcuni: Giulio Cittato (Venezia, 1936-1986), che nel lontano 1978 ha disegnato tutta la corporate identity della navigazione urbana di Venezia e da allora è più facile orientarsi in un luogo speciale dove il giallo e il carattere tipografico Helvetica, scelti da Cittato, identificano per i turisti di tutto il mondo la città lagunare. Un altro protagonista di un particolare sistema di arredo urbano, anche questo sull’acqua, è stato Mimmo Castellano (Gioia del Colle, Bari, 1932 – Milano, 2015) che nel 1975 ha progettato un sistema di segnaletica per l’Ufficio turistico delle isole Eolie, purtroppo ora parzialmente abbandonato. Massimo Vignelli (Milano, 1931 – New York, 2014), maestro non a caso di Cittato, una svolta sbarcato negli Stati Uniti ha disegnato nel 1978 la mappa dei 61 grandi parchi americani (compresi il Gran Canyon e la Death Valley in California).
Progettare sistemi per grandi spazi abitati o visitati da milioni di persone è un’attività che deve mettere in campo più conoscenze, a partire dall’antropologia e dalla sociologia dei consumi. Forse bisognerebbe ascoltare alcuni consigli di Bob Noorda, quando fu chiamato, dopo l’esperienza della Metropolitana di Milano nel 1964, a disegnare l’identità dei sistemi di trasporti di New York e di San Paolo del Brasile: «Per studiare i flussi ho sovrapposto le piante delle stazioni esistenti su fogli trasparenti. A quel punto, per testare quei flussi, ho sperimentato, sul campo, facendo tutti gli itinerari, scoprendo dove avevo bisogno di posizionare un’informazione o dove c’era un cambiamento di linea o di corridoio. Solo allora ho disegnato a mano tutti i punti d’informazione di cui avevo bisogno, poi rifacevo alla rovescia il percorso, dal treno alle uscite, per verificare la correttezza dell’impostazione grafica. Per questa ragione i miei amici mi chiamavano “talpa”, perché stavo sottoterra per giorni e giorni, con la macchina fotografica».
Il metodo scientifico per progettare correttamente gli arredi urbani è quello di partire dal «basso»: due esempi recentissimi, anche alla luce delle proposte di Vittorio Magnago Lampugnani (Roma, 1951), quando, a proposito della città come insieme di «frammenti urbani», analizza, nel saggio dal titolo omonimo (Bollati Boringhieri, 2021), il ruolo di piccoli oggetti come tombini, semafori, fontanelle, marciapiedi, orinatoi, paracarri, targhe… fondamentali per costruire l’dentità di un sistema urbano e orientare il nostro sguardo.
In primo luogo, il progetto lanciato dal Salone del Mobile di Milano, in collaborazione con il Politecnico di Milano, coordinato da Francesco Zurlo e Stefano Maffei, per mettere a registro, sul piano identitario, la più importante Design Week del mondo; da un lato il motore, insostituibile del Salone, dall’altro il cosiddetto Fuorisalone che trasforma per una settimana completamente la città, introducendo nuove mappe e percorsi, pezzi di città e di territori limitrofi. Come osserva Maria Porro, presidente del Salone del Mobile, «bisogna superare la dicotomia Salone e Fuorisalone, ognuno facendo la sua parte, all’interno di una visione dove al centro c’è il motore delle Fiera, nella logica di una capitalizzazione culturale e progettuale capace di migliorare anche la qualità del design urbano di Milano». In secondo luogo, a Seul, in Corea del Sud, più di 10 milioni di abitanti, una delle città al mondo più dinamiche, anche se la sua collocazione geografica, distesa su una serie di colline, rende problematica un’efficienza urbana, da 5 anni organizza «Seul Design Award», un concorso che coinvolge 20 città del mondo, ai fini di migliorare con la diffusione del design la sostenibilità della vita nelle grandi metropoli.
Il presidente è un italiano, Ezio Manzini, uno dei maggiori studiosi di design per la sostenibilità, e nella commissione è presente anche Andrea Cancellato, direttore dell’Adi Design Museum di Milano. L’Italia al centro, sullo sfondo Urbino, la città ideale per Niccolò Machiavelli, la cui rappresentazione urbana è la famosa piccola tempera, attribuita a Piero della Francesca e Luca Pacioli, conservata nella Galleria Nazionale della città. Da qui forse è necessario ripartire per non perdersi nelle grandi città metropolitane.
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