Haruki Murakami
Sei anni senza un libro e poi Haruki Murakami tira fuori una storia da un racconto pubblicato su una rivista più di 30 anni fa, un’idea che già aveva cercato di espandere in romanzo e che è diventata la base per La fine del mondo e il paese delle meraviglie, uscito agli inizi del 2000, insomma: l’ultimo titolo, La città e le sue mura instabili, è un sogno ricorrente. Con un titolo provvisorio destinato a cedere come ogni parete che Murakami pianta dentro le pagine. «Una lisca di pesce conficcata in gola che gli era insopportabile», per usare le parole della traduttrice italiana, Antonietta Pastore. Lei ha tra le mani il manoscritto giapponese da 24 ore ed è pronta a convertirlo in italiano, pronta a un altro viaggio tra il fantastico e una realtà così vera da fare quasi male.
Code in Giappone per comprare il libro appena uscito, attesa in Europa prima ancora di avere date di pubblicazione e gossip sulla trama negli Usa dove, al momento, Murakami sta tenendo una serie di lezioni.
Perché questo autore è così universale?
«Risponde a un’esigenza quotidiana, anzi a più di una. Si prende cura dei sentimenti ed è una pratica rara. Vorremmo che fosse diffusa, invece è più facile guastare che proteggere, quindi lui rigenera un istinto sano e radicato nella cultura giapponese dove l’attenzione e l’educazione per l’altro non è pura formalità. E poi parla di quel passaggio tra mondo concreto e universo immaginario che da ragazzini credevamo fantascienza e oggi è più semplicemente tecnologia o intelligenza artificiale. Qualcosa con cui confrontarci e per cui lui ha trovato un contesto e un vocabolario in anticipo sui tempi».
Anche questa storia ripropone il tema. Da una parte due adolescenti innamorati che entrano in una dimensione alternativa dove non sono ammesse ombre e dall’altra un libraio impiegato in una biblioteca di montagna. Personaggi destinati a incrociarsi e sovrapporsi.
«Murakami ha ripreso il soggetto durante la pandemia quando era confinato, mentre tutti noi eravamo rinchiusi. Ha trovato una destinazione all’urgenza della novella scritta decenni prima. Adesso, dire come fa lui, “non si può restare al di qua dei muri”, è ancora più importante, necessario, perché ci è capitato di essere bloccati e dovremmo sapere quanto mettere una distanza, una divisione, sia punitivo. Lo è nei rapporti intimi, nella politica, vale per i muri dentro la testa e per quelli fatti di mattoni, per i confini forzati, per i limiti imposti».
Perché crede che il titolo La città e le sue mura instabili non reggerà alla nostra lingua?
«Ne parlerò con Einaudi. Credo che l’autore volesse suggerire fin da subito pure il muro esistente tra coscienza e subconscio. Il vocabolo giapponese che usa non ha un esatto equivalente italiano. Vale per insicuro, incerto, anche per instabile, ma classificarlo così pare riduttivo. È più ampio. Vedremo».
Si è fatta una idea sulla trovata delle ombre. Perché privarsene?
«L’io cibernetico, anche qui, definizione usata in libri precedenti che andrà aggiornata, non proietta ombre, l’umano sì. L’ombra è la voce interiore, ci annoia ma non la possiamo perdere. Se la abbandoniamo per comodità, convinti di farne a meno, ci si sgretola. L’ombra riporta l’individuo alle proprie responsabilità».
Lo rende anche unico. La società giapponese nega l’individualismo, l’ombra è un avvertimento?
«Sicuro e non è il primo per Murakami. I suoi personaggi sono intimisti, il Giappone si rimette al bene del gruppo e ovviamente è una visione che ha della nobiltà, nella forza della comunità che supera il singolo, ma lì la persona e le sue particolarità vengono quasi negate, frustrate».
Quanti libri di Murakami ha tradotto?
«Siamo a 24 o 25, quasi l’intera produzione».
Dicono di lui che vuole piacere a tutti e per questo è il più occidentale dei giapponesi.
«No, io litigo spesso con concetti che non hanno un corrispettivo nelle nostre abitudini. Per esempio, che so, il “kotatsu” un tavolino basso e riscaldato dove i giapponesi passano i giorni invernali, senza muoversi. Non è un mobile, è una filosofia. No, lui è radicato al posto dove è cresciuto, lo interpreta e lo apre, intriga, interessa, parla di una vita che vale ovunque perché ha talento e lo sa fare, non perché cerca di essere di moda. Lo pensano solo gli invidiosi».
Per questo piace a generazione diverse?
«Tocca i luoghi che cambiano e a un certo punto o ci si è passati o ci si sta per arrivare. Nei suoi libri ci si entra».
Lei è stata in Giappone per sedici anni, ritrova i posti in cui ha vissuto nei libri di Murakami?
«Li trovo ripuliti, elevati. Io mi sono trasferita in Giappone nel 1967 perché avevo un marito nato lì e conosciuto in Europa. Ci siamo poi separati, però io mi sono fermata fino al 1993. Ho visto il Paese cambiare eppure nel profondo restare sempre lo stesso. Da 20 anni è fermo economicamente e non è solo questo. Penso alle donne e non sono affatto come le coreane che oggi vediamo in film di successo, sono legate a una bellezza contenuta, occupano poco spazio».
In una società maschilista?
«Eccome, ma appunto Murakami non è affatto maschilista e siccome, alla fine, il protagonista dei suoi romanzi è costantemente lui, il suo Giappone è più sensibile di quello reale».
Si aspettava ci mettesse tanto a pubblicare il nuovo libro?
«No, infatti ero qui in attesa come se la latitanza fosse ormai troppa. Lui si è dedicato ad altre attività: ha fatto molta radio e anche dei programmi on line. Ha curato una raccolta di vecchie pubblicazioni, Prima persona singolare, soprattutto ha coltivato la sorpresa perché il libro è uscito ieri in Giappone senza avvertimenti e per questo si è propagato un fermento, per l’interesse che sa scatenare. Senza un preavviso, è uscito fuori in modo ancora più evidente».
Murakami ha scritto in isolamento, lei come lo tradurrà?
«Più o meno allo stesso modo. Senza restare prigioniera in casa o completamente sola, ma non potrei lavorare in un luogo diverso dal mio studio torinese. Al massimo posso trasferirmi nella casa in montagna, a Limone Piemonte, però se non c’è nessuno. In presenza di altri non sarebbe possibile. Saremo io e Murakami».