Mona Chollet : « Valeria Bruni-Tedeschi n’a pas analysé les rapports de pouvoir qui se jouaient aux Amandiers »
11 Dicembre 2022La verità, vi prego sui Futuristi
11 Dicembre 2022
Vincenzo Trione
New York, fine anni Sessanta. Ugo Mulas visita gli studi, tra gli altri, di Warhol, di Johns, di Oldenburg, di Lichtenstein, di Segal, di Stella e di Newman. Ne emergono ritratti «in diretta», poi radunati in New York: arte e persone (1967). Nei suoi pedinamenti, Mulas avvia corpo a corpo raffinati. Diventa l’ombra di quei maestri. Coglie l’attimo nel quale essi, in silenzio, si immergono in quadri e sculture, fino a dissolversi. «Se per tanti anni sono andato in giro a fotografare i pittori, la molla segreta era l’idea e l’attesa che, attraverso la pittura e i pittori, sarei riuscito ad afferrare qualcosa che non era solo la pittura e giungere a capirmi», ha dichiarato Mulas.
Una confessione che potrebbe ripetere Aurelio Amendola, da anni impegnato in perlustrazioni tra atelier (in parte esposte nel 2014 alla Triennale di Milano). Per scandagliare il nucleo oscuro e indecifrabile dell’arte, Amendola ricorre a uno sguardo «a lunga posa», che non teme le riprese inesatte. Cattura le opere come impasti di materia e di forma. Le guarda da sopra e da sotto, da dietro e di lato; ne scandaglia la consistenza, le evanescenze, le modulazioni tonali. Il suo occhio è in movimento, segue le insenature dei corpi, le ombre addensate, i conflitti tra i colori, le trasparenze dell’atmosfera, l’incidenza della luminosità e delle ombre. È quel che ritroviamo negli scatti inediti pubblicati in queste pagine da «la Lettura», dedicati a de Chirico, a Moore, a Warhol, a Lichtenstein, a Nitsch, a Burri, a Tàpies, a Vedova, a Kounellis, a Schnabel, a Paladino.
Esercizi sapientemente voyeuristici. Ideali prologhi di un libro di James Hall appena pubblicato (Lo studio d’artista. Una storia culturale, Einaudi). Una storia sorprendente, che si apre con la più antica descrizione del luogo di lavoro di un artista: la casa di Efesto, il dio del fuoco, divinità protettrice degli artigiani, celebrata nell’Iliade. La narrazione critica di Hall procede per stazioni tematiche, oscillando tra poli antitetici, incarnati da Leonardo, che afferma la centralità dell’atelier; e da Michelangelo, contrario al dipingere e allo scolpire «al chiuso», in gioventù sorretto dall’ambizione di modellare una grande scultura sul fianco di una montagna.
Ecco, allora, lo studio di Auguste Rodin: grande, ma austero e povero, come la cella di un monaco. E il leggendario antro parigino di Alberto Giacometti: un ambiente intimo, umile, come una grotta con muri marci, disseminati di grafie e di scarabocchi, ingombra di attrezzi, di oggetti e di sculture, personaggi filiformi, dolenti, consunti, eroi di una statuaria negativa condannati a una solitudine senza redenzione, plasmati nell’assenza, in bilico tra l’Essere e il Nulla, sopravvissuti all’Ade o a un’era estinta, familiari ma distanti, prigionieri in sé stessi. Si avvicinano e indietreggiano verso una lontananza remota, in un ininterrotto andirivieni, contraendosi, fino quasi a disintegrarsi. Ecco, poi, l’atelier-cattedrale di Constantin Brancusi a Parigi, abitato da «gruppi mobili», che vengono continuamente riconfigurati. Ed ecco lo studio-discarica londinese di Francis Bacon, a South Kensington. Uno sfrenato disordine, dal quale poi affioreranno iconografie rigorose e, insieme, assurde. «In posti troppo ordinati non riesco a lavorare, mi risulta molto più semplice dipingere in un luogo come questo, che è in disordine (…); quando comincio, posso avere delle idee, ma per la maggior parte del tempo ho soprattutto l’idea di fare, e questo non ha niente di molto ordinato nella mia testa: rispondo a un’eccitazione», dirà Bacon. Infine, ecco gli atelier di Lucian Freud: quello diurno, illuminato da luce naturale; e quello notturno, con lampadari alogeni.
Diverso l’approccio dei teorici del post-atelier, che sembrano ispirarsi a una famosa battuta di Manet a proposito di Monet: «Son atelier c’est son bateau» (il suo atelier è la sua barca). Perché lo studio di Monet è la natura: non ha pareti né limiti, ma è mutevole e assorbe sfumature luministiche. E poi il land artist Robert Smithson: «Lo studio comincia a crollare e a cadere come la Casa Usher». E Marina Abramovic: «La buona arte non è mai prodotta in studio. La buona arte la produco vivendo». Senza dimenticare le factory nate sin dagli anni Sessanta: da quella di Warhol a quella di Koons, da quella di Murakami a quella di Elíasson. Officine dove il «capo» non si sporca le mani, ma si concentra solo su idee, la cui esecuzione è affidata a un’équipe di professionisti.
Eppure, l’atelier continua a essere una tra le figure plastiche più decisive del sistema dell’arte contemporaneo, come un’Araba fenice destinata a risorgere sempre dalle sue ceneri. È quel che dimostra, in maniera titanica, lo studio-opera d’arte totale allestito da Anselm Kiefer a Barjac, nel sud della Francia. Un’intera collina. Una ex manifattura di seta di circa 35 ettari. Un’enorme officina, con stanze, capannoni, serre, hangar, container, installazioni, sotterranei, un anfiteatro, cripte, divinità incrostate, salvate da qualche naufragio. «Potrei spingermi a paragonare il mio studio al Cern, e descriverlo come il luogo in cui si elaborano ricerche che puntano a fare nuove scoperte sull’inizio, sull’origine», ha dichiarato Kiefer.
Si sfogliano le pagine del libro di Hall. E risuonano nella memoria le parole di Denis Diderot che, in un passaggio dei Saggi sulla pittura, aveva annotato: «Amico mio, andate in un atelier, osservate l’artista al lavoro».
Dunque, amici, andate negli atelier! Si tratta, secondo Hall, non di meri palcoscenici che offrono spettacoli, ma di spazi che assorbono umori. Crogioli che distillano la magia della creazione umana. Entità permeabili e mutevoli, dense di assonanze con le botteghe degli artigiani, con le celle dei monaci e con gli studioli degli eruditi. Territori enigmatici, sfaccettati, spesso interdetti. Templi laici all’interno dei quali si articola una fitta drammaturgia di materie e di visioni. Regni retti da leggi indecifrabili, governati da un unico sovrano. Piccole nazioni difese da confini, che collegano prossimità e distanza, il conosciuto e l’estraneo, il dentro e il fuori. Gli studi ricordano un po’ le «eterotopie» di cui aveva parlato Michel Foucault: luoghi senza luogo, isolati e autonomi e, nello stesso tempo, aperti e penetrabili. Per capire questa dialettica, illuminante L’Atelier du peintre di Gustave Courbet (1819-1877). Una tela di grande formato. Un panottico. Una pala centrale e due laterali. Un trittico implicito, privo però di coerenza interna. «Un continu um che si presenta come un discontinuum», secondo lo storico dell’arte Werner Hofmann. Forse, una riscrittura dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso. A destra, gli eletti (amici, appassionati d’arte). A sinistra, coloro che conducono un’esistenza banale (popolo, sfruttati, sfruttatori). Al centro, in un contesto incontaminato e poco illuminato, con barlumi di montagne e di cielo, isolato, il pittore-martire, intento a dipingere un paesaggio, assistito da un bambino e dalla sua musa, simboli di verità e di energia.
Siamo dinanzi a un prodigioso intreccio di sineddochi, come ha acutamente sottolineato il critico Brian O’Doherty: «Lo studio rappresenta l’arte, gli strumenti rappresentano l’artista, l’artista rappresenta il processo, il prodotto l’artista e l’artista lo studio». Sistemi di convenzioni linguistiche, arene del farsi dell’opera, campi di forze, stanze del mistero capaci di rilanciare la mitologia rinascimentale e romantica dell’artista, originali formule topologiche, strutture plastiche che gestualizzano il corpo e inventano identità morali, dispositivi che portano l’anima fuori di sé, media di cui il pittore ha bisogno per dare forma alla sua dimensione psichica, dispositivi che estendono e moltiplicano l’Io. E ancora: luoghi mondani e profani, che fanno parte delle opere, ma sono anche estranei alle opere stesse. Interlocutori negativi, dotati di una spiccata autonomia linguistica. Non sfondi, ma contrappunti pensanti, che si impongono con la loro individualità. Infine, case estese, da abitare e da osservare. E testi che chiedono di essere decifrati. Questo sono gli atelier. Che, in alcuni momenti, sembrano addirittura collaborare con il pittore o con lo scultore, fino a diventarne loro protesi.
Si varca una soglia magica, e ci si trova in una terra incognita e arcana. L’artista si esclude dalle voci di fondo, per rifugiarsi in uno stato d’eccezione, attento a combinare desiderio e possesso. Sceglie la condizione dell’esilio. Si rintana in parentesi protettive, dove può radicarsi ed espandersi. Comportandosi come i mistici o gli sciamani, accede a un altrove provvisorio, libero dai vincoli della quotidianità. È in un mondo ulteriore. In uno spazio-tempo alternativo, in un altro ecosistema. Lì si sottomette a regole di comportamento diverse, finalizzate solo allo slancio poetico. Alla ricerca di un altro sé stesso, cambia postura ed effettua uno scarto rispetto alle sue ritualità. Incurante di quel che avviene fuori, coincide con l’atto fabbrile. Solo in quelle zone franche può compenetrarsi davvero con il suo lavoro ed entrare in contatto con la sua più segreta interiorità, con i suoi pensieri più astratti, con le sue intenzioni non ancora rivelate. L’opera, l’unico orizzonte, l’unica meta. «Quando ho lasciato l’atelier e sono nella strada, allora più niente è vero di ciò che mi circonda», ha detto Giacometti.
È come lo scheletro per una conchiglia, un atelier per un pittore o per uno scultore. Lì si compiono prodigi, metamorfosi.
Un’appendice. Un prolungamento della persona che inventa iconografie. Il corpo sembra uscire da sé stesso, per confondersi con il luogo dove si muove. Ingloba tutto ciò che ostacola la sua azione. Si impossessa delle cose, usandole come parti di sé. In un gioco di appropriazioni e di immedesimazione, dissolve le distanze tra organico e inorganico, fino a disegnare i contorni di quella che, con Deleuze e Guattari, potremmo definire «ecceità»: una categoria che allude a una condizione in cui «tutto è in rapporto di movimento e di riposo tra molecole e particelle, potere di intaccare e di venire intaccato». Sfidato da alcuni eventi entropici, l’equilibrio astratto e geometrico dello studio così viene animato e modificato dai gesti dell’uomo, per farsi essere vivente in continua mutazione.
Benvenuti in un habitat che sembra mimare anche il meccanismo del pensiero. Quando si entra in un atelier, si ha la sensazione di aggirarsi nella mente dell’artista, che ricorda da vicino una terra avventurosa e impervia, attraversata da crateri in eruzione e vita brulicante, illuminata dalla luce e abitata da buie caverne, piena di tesori nascosti, di visioni indelebili, di parole in sospeso. «Questo disordine qui (…) è un po’ la stessa cosa di quello che è nella mia mente ed è forse una buona immagine di ciò che succede dentro di me», ha detto Bacon.
L’atelier, dunque, si dà pure come dilatazione dell’invisibile stanza interiore dell’artista, sempre impegnato a fare coincidere volontà e opera, incline a muoversi tra suggestioni, strumenti e materiali, preso da dubbi, ripensamenti, tremori e incertezze, pronto a sottomettersi non a una cieca e immediata potenza-di-fare, ma a un’esitante potenza-di-non-fare. «Tale l’atelier, tale l’artista», ha scritto Michel Leiris.
Infine, siamo al cospetto di complesse macchine di trasmutazioni e manipolazioni. Laboratori dove l’artista, come il funambolo nietzschiano, tenta di superare ostacoli, tormentato da sfinimenti e difficoltà. Teatri alchemici, nei quali si manifestano ininterrotte trasformazioni, senza tenere conto delle imposizioni del mercato. In queste autentiche sacche di resistenza, non si incontra l’opera finita, ridotta a prodotto, merce, feticcio, sottomessa all’economia del profitto. Si scopre, invece, l’opera nel suo farsi: oggetto imperfetto e ruvido, percorso insicuro, processo in divenire, cammino alla cieca, avventura amorosa esposta a tradimenti, transito da qualcosa a qualcos’altro, viaggio che non sempre conduce verso un approdo.
In quelle camere dell’immaginazione, si può sostare ai margini degli eventi, ai bordi delle cose, agli orli dei significati, su soglie rarefatte, in passaggi a vuoto, nei perimetri del non-accadere. Progetti sospesi, abbandonati, in divenire, non conclusi, forse pronti alla resurrezione, interrotti da crisi, destinati a compiersi. Palinsesti instabili, densi di porzioni di temporalità non contigue, lambiti solo dagli sguardi del creatore e di qualche visitatore. Frammenti in attesa di essere risolti, nei quali sembra ancora respirare la presenza dell’artista, viandante in un inferno da egli stesso costruito.
È per questa ragione che, meglio delle opere esposte, i tanti indizi disseminati in uno studio, nel collegarsi per vie segrete, restituiscono in maniera imprevista il ritratto dell’artista. Un po’ come accade in una parabola narrata da Jorge Luis Borges in L’artefice. «Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, d’isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto».
Per cogliere il senso di queste dinamiche, potremmo riferirci alla tecnica cinematografica della soggettiva. Questo artificio consente allo spettatore di assumere una posizione attiva e di coincidere con quel che un personaggio vede, sa e sente, entrando in campo con i suoi occhi, la sua mente, le sue credenze. Quando entriamo in un atelier, abbiamo la possibilità di vedere l’arte «in soggettiva», con gli occhi dello stesso artista, che svela le sue meditazioni in divenire, su di sé, sul suo mestiere, sui suoi mezzi, sulle ragioni sottese alla sua pratica.
Dunque, seguite l’invito di Diderot: amici, andate negli atelier! Perché è solo lì — in nessun museo, in nessuna galleria — che si ha la possibilità di vedere l’opera nella sua genesi, afferrandone il codice sorgente, simile a una parola parlata o all’ecolalia di un folle. Cos’erano una silhouette di Giacometti, un ritratto di Freud o un assemblage di Kiefer prima che diventassero un testo visivo fissato per sempre, muto, infinitamente interpretabile? Degli atelier si potrebbe dire quel che afferma Xavier, tra i protagonisti de La vita è altrove di Milan Kundera: «La vera casa era là dove apparivano orizzonti sconosciuti. Passando da un sogno all’altro, da un paesaggio all’altro».