di Alessia Melcangi
Il terremoto provocato dall’eccidio del 7 ottobre 2023 si espande superando i confini di Israele e della Striscia di Gaza, coinvolgendo attori non solo regionali, ma anche internazionali, trascinando infine la martoriata Siria. Perché, come è facile intuire, la crisi siriana riemersa in questi giorni rappresenta una parte del conflitto più ampio già in atto nell’area: un altro tassello che salta nell’architettura di sicurezza regionale di un Medio Oriente instabile e conflittuale. Dopo anni di sanguinosa guerra civile, Bashar Al-Assad aveva vinto, unico raìs rimasto al potere nonostante la furia delle cosiddette “primavere arabe” grazie all’appoggio granitico della Russia e dell’Iran, sponsor ufficiali. Ma la sua vittoria non aveva portato alla ricostruzione della Siria, piagata da una perseverante crisi economica e, soprattutto, non aveva pacificato uno stato frammentato, ridotto de facto a diversi governatorati ed enclave. Il governo di Al-Assad, in carica dal 2000, longa manus del regime primigenio del padre Hafiz, ormai sclerotizzato e corrotto, aveva preferito a un processo di riconciliazione delle varie componenti settarie, etniche e politiche del paese, adottare metodi repressivi violenti, che nei fatti esacerbavano le divisioni piuttosto che ricomporle. Come nella teoria dell’inclinatio classica, la distanza tra potere reale e meccanismi formali presente in un sistema provoca la caduta del sistema stesso. Così il regime degli alawiti è imploso senza colpo ferire sulle spoglie di ciò che rimane del sostegno dei suoi alleati, la Repubblica islamica dell’Iran e i suoi proxy e la Russia, per mano di un esercito siriano in repentina ritirata e di un’opposizione, quella jihadista, che ha ritrovato lo slancio decisivo. Alleanze che si compongono e si scompongono in rapida velocità nell’attuale scenario multipolare e, nuovamente, dal pantano siriano emergono i caratteri di un conflitto per procura che vede potenze regionali e globali perseguire i propri interessi strategici sfruttando le forze politiche e le dinamiche interne alla Siria.
La Russia appare essere la grande sconfitta, costretta forse di sorpresa a rinunciare al baluardo strategico siriano nel Mediterraneo: un sistema che aveva retto, nonostante il ridotto impegno di Mosca per via della guerra in Ucraina, grazie alla presenza militare nel paese con le basi navali di Tartus e la base aerea di Latakia. Tuttavia, blindare il regime di Assad nel 2015 non è bastato, poiché la debolezza di questo sistema stava proprio nell’inconsistenza del regime siriano. La Russia, che non si è spesa a difesa del suo protégé, potrebbe aver già trovato un accordo con la Turchia per salvaguardare le proprie priorità strategiche: conservare le basi militari nel paese, dunque l’influenza nella regione. Allo stesso modo l’Iran, già duramente colpito dalla guerra a Gaza e in Libano, ha dovuto al momento rinunciare alle proprie ambizioni geopolitiche sull’area, nelle quali la Siria rappresentava il corridoio critico per il supporto iraniano a Hezbollah in Libano, consentendo a quest’ultimo di presentarsi come una minaccia diretta per Israele. L’attuale erosione delle capacità dell’Iran in Siria, unita all’indebolimento di Hezbollah, ha già messo a repentaglio questo asse strategico.
Dalla debolezza di questi attori ne trae forza la Turchia di Erdogan che emerge come protagonista centrale della crisi in corso. Con la vittoria di Al-Assad, la Turchia aveva subito uno smacco geostrategico, pur continuando a sostenere i gruppi di opposizione jihadisti a Idlib. Lavorando presumibilmente sottotraccia, Ankara ha abilmente preparato questo attacco, trovando il regime e gli alleati del tutto impreparati, e ottenendo un enorme successo: allargarsi da Idlib a tutta la Siria. Cosa vorrà ottenere il sultano? Di certo alzerà il prezzo di un nuovo accordo di stabilizzazione, puntando a rimodellare l’equilibrio politico e militare a Damasco e più in generale nell’area mediorientale. Ma anche cercare un compromesso con il nuovo governo siriano per facilitare il rimpatrio dei milioni di rifugiati siriani in Turchia e, soprattutto, stabilire una zona cuscinetto di frontiera che allontani dal suo confine le milizie curde, considerate una minaccia esistenziale.
In questo quadro, a incassare i risultati della crisi siriana è anche Israele che ha capitalizzato lo scardinamento del “Fronte di Resistenza” guidato dall’Iran con la caduta dell’ostile regime degli alawiti. Dopo aver sostenuto i gruppi jihadisti, secondo la regola de “il nemico del mio nemico è mio amico”, il governo di Netanyahu ne ha approfittato per avanzare in Siria nella zona cuscinetto ai margini con la parte delle Alture del Golan occupata e annessa da Israele, violando, secondo l’Onu, l’accordo di disimpegno del 1974 tra i due paesi. Occupazione militare temporanea e di sicurezza, si affretta a dichiarare il ministro della Difesa Katz, volta a prevenire qualsiasi minaccia terroristica verso Israele, che si accompagna ai numerosi attacchi realizzati in questi giorni dalla marina e dall’intelligence israeliana contro obiettivi militari e strategici siriani affinché «l’equipaggiamento strategico non cada in mani sbagliate». Quale è la ragione di tale mossa? Tel Aviv ha festeggiato la fine del regime di Al-Assad, ma sa bene che un governo radicale jihadista alle porte, rebranding di Jabhat al-Nusra, propaggine di al-Qaeda, noto per la sua opposizione all’esistenza dello Stato di Israele, non è una soluzione auspicabile.
E mentre gli Stati Uniti bombardano ciò che rimane dello Stato Islamico in Siria per evitare una sua possibile rinascita dal caos generale, Trump ha già fatto sapere che la nuova dirigenza statunitense non intende entrare negli affari interni della Siria, confermando il solido disimpegno strategico di Washington dall’area.
Nel nuovo mondo multipolare le alleanze si compongono e si scompongono velocemente, ma ciò che emerge fortemente è l’incapacità degli attori in gioco di proiettarsi nel lungo periodo: è la strategia del giorno stesso a essere preminente, non quella del giorno dopo. Con implicazioni significative non solo per il futuro di paesi stremati da anni di guerra come la Siria, ma soprattutto per le più ampie dinamiche geopolitiche del Medio Oriente.