Penso che, per quanto le comparazioni storiche risultino sempre imperfette, l’azione di Hamas del 7 ottobre sia assimilabile a un pogrom (ebrei uccisi perché ebrei); e che esso acquisisca uno statuto di unicità nel cupo catalogo delle nefandezze del mondo (ne ha scritto Ezio Mauro lunedì scorso). Ritengo tuttavia che i morti civili palestinesi non costituiscano il costo necessario del diritto di Israele a difendersi; e i bambini di Gaza colpiti dalle bombe non vadano considerati come l’inevitabile effetto collaterale della punizione dei terroristi.
In altre parole, si possono avere a cuore le vittime della carneficina di Hamas del 7 ottobre e quelle palestinesi di oggi e di domani: senza, per ciò, sentirsi costretti a privilegiare, con meschino spirito marziale, le une rispetto alle altre. E senza lasciarsi condizionare né dai propri sensi di colpa (che pure possono essere seri e nobili) né dalle intimidazioni di quei giornalisti italiani, aspiranti caporal maggiore dello Shin Bet, che tromboneggiano contro chi non prenderebbe una posizione sufficientemente netta. Ovvero a esclusivo favore di Israele.
Negli scritti di costoro – tanto più bellici quanto più provenienti da una comfort zone – mai una sola riga che parli dell’assedio di Gaza e dei civili uccisi in quel territorio. Un atteggiamento perfettamente speculare a quello di chi (anche a sinistra, ahinoi) ha perfezionato una ambigua formula retorica già sperimentata in altre circostanze. Ossia: quello di Hamas è stato un atto di barbarie, ma… E qui si elencano le colpe di Israele che riequilibrerebbero le colpe dei terroristi.
Si tratta di quella che il grande linguista Luca Serianni definiva come coordinazione avversativa incardinata sulla congiunzione “ma”. Una classica procedura dialettica che i latini chiamavano occupatio e che, più prosaicamente, potremmo indicare con l’espressione “mettere le mani avanti”. La prima asserzione conferma la condanna del terrorismo, mentre il successivo “ma” introduce un discorso che rischia via via di ridimensionare, fino ad attenuare o addirittura cancellare, la prima affermazione (il ripudio di Hamas).
È una grave insidia che produce un ulteriore pericolo: che nel diradarsi della memoria del primo avvenimento (la strage del 7 ottobre) e nella focalizzazione unilaterale sul secondo (le bombe su Gaza) si insinui e si diffonda il pregiudizio antisemita del quale si avvertono numerosi segnali. È una questione delicatissima che va affrontata con la massima cura. Temo che tra i tanti che dichiarano “sono antisionista, non antisemita” troppi dimentichino quanto quella frase sia immemore della Storia e paurosamente in bilico tra ignoranza e giudeofobia.
Se tutto questo è vero, il tentativo faticoso e doloroso discegliere di stare dalla parte delle vittime, e solo dalla parte di tutte le vittime, risulta, più che una manifestazione di insicurezza o di ignavia, un imperativo morale ma anche politico. Politico perché indica una direzione, pure impervia e sdrucciolevole, capace di disinnescare questa terribile spirale di morte, nella prospettiva di una futura soluzione fondata sulla pari dignità e sulla pari tutela dei diritti dei due soggetti oggi in armi. Ciò è tanto più vero per tutti noi non sottoposti alle bombe israeliane e ai tagliagola di Hamas, che dovremmo approfittare del lusso del nostro stato di immunità per andare oltre la “coscrizione obbligatoria” (Concita De Gregorio) imposta dalla militarizzazione del dibattito pubblico. Non è un modo per eludere la brutale realtà della guerra e del sangue rifugiandoci in un empireo irenista. All’opposto, quell’atteggiamento esprime la volontà di considerare l’insieme delle cose e delle cause, del peso del passato e dell’incognita del futuro, del disgregarsi della memoria e dei processi di disumanizzazione.
Accettare invece la logica degli schieramenti significherebbe precipitare nel dispositivo della vendetta che chiama vendetta. Dunque altro che realismo politico, quello dei nostri aspiranti caporal maggiore: è, piuttosto, un rinunciare alla politica per privilegiare la guerra. Ma stare dalla parte delle vittime, e solo dalla parte di tutte le vittime, significa anche altro.
Non è una scelta di neutralità, bensì il suo contrario: vuol dire optare per un impegno più grande e più gravoso rispetto alla decisione di scegliere una parte e lì rincantucciarsi e adagiarsi. Vuol dire richiamare quella “autorità delle vittime” di cui scriveva decenni fa il teologo Johann Baptist Metz, che dedicò alla riflessione su Auschwitz gran parte della sua vita di studioso. Il tema è stato ripreso in questi giorni dal teologo Piergiorgio Vincenzi, che ha ricordato come nel Vangelo “il primo sguardo di Gesù non sia diretto al peccato degli uomini, ma al loro dolore”. Per poi aggiungere che “la riflessione teologica diventa programmaticamente teologia politica. Perché è una teologia, ma con gli occhi aperti sulla sofferenza dell’uomo”.
Dunque, il dolore degli esseri umani come principio e fine di ogni pensiero politico. Tutto il dolore: quello del pogrom del 7 ottobre, quello dei bambini palestinesi uccisi, quello degli ostaggi nelle mani di Hamas. Nulla di astratto o di ideologico, bensì il patimento della sofferenza e la volontà di sottrarvisi come fondamento di ogni agire politico. E, per noi che non “patiamo” sui nostri corpi “i disastri della guerra”, come punto di vista al quale abbarbicarci.