Cingolani torna indietro su gas e rinnovabili. La sua Italia va a carbone
17 Settembre 2022MEHDI GHADYANLOO
17 Settembre 2022A colloquio con Silvia Spera della Cgil nazionale. Le agenzie di rating abbassano le stime di crescita per l’Italia, mentre gli imprenditori annunciano altri fallimenti a causa dei costi energetici. Il nuovo governo erediterà decine di tavoli di crisi già aperti, che coinvolgono almeno settantamila lavoratori
Le ultime notizie che arrivano dalle agenzie di rating internazionali non sono affatto buone per il nostro Paese. E mentre si parla di una possibile nuova recessione, gli industriali italiani raccontano perfino al papa di un autunno molto difficile e di migliaia di possibili licenziamenti. Nel frattempo, si moltiplicano i casi di delocalizzazione, come quello della Wärtsilä, la multinazionale che produce grandi motori, e che vuole riportare la produzione in Finlandia lasciando 451 esuberi a Trieste. Tutti i sindacati sono preoccupati di quello che potrebbe essere un vero e proprio tsunami per l’industria. Il segretario della Cisl, Luigi Sbarra, ha lanciato la cifra di un milione di posti di lavoro a rischio. Sono questi i numeri della crisi? Che cosa sta per succedere con le crisi industriali già aperte? E come mai nei programmi elettorali tra le grandi omissioni c’è proprio la politica industriale? Lo abbiamo chiesto alla sindacalista Silvia Spera che, per la Cgil, monitora costantemente i tavoli di crisi presso il ministero dello Sviluppo.
Allora Spera, la situazione sembra molto preoccupante. Dai dati che raccogliete, con il vostro Osservatorio sulle crisi, sembra ci siano già più di settantamila posti di lavoro a rischio. È così?
Si, è vero. Sono in bilico più di settantamila posti di lavoro. Dalla pandemia a oggi ci sono state alcune crisi che hanno avuto soluzioni positive, ma poche si sono concluse con la sostanziale tenuta dei livelli occupazionali, quasi tutte hanno fatto registrare un ridimensionamento occupazionale accompagnato dall’utilizzo di ammortizzatori sociali. Inoltre, in ogni crisi industriale, c’è un effetto domino sull’indotto e sull’intera filiera, che in termini di perdita occupazionale è molto difficile da quantificare. Quindi le cifre sono molto più alte della somma dei posti di lavoro che ballano nelle crisi produttive già aperte e conclamate.
Quali i settori in maggiore sofferenza? Quale industria è uscita dal periodo della pandemia?
Nei settori della siderurgia, della moda, dell’elettrodomestico, delle telecomunicazioni e dell’elettronica, vi erano aziende importanti già in difficoltà ancora prima della pandemia, e con la pandemia si sono acutizzati problemi già esistenti; in diversi casi, hanno beneficiato di finanziamenti pubblici erogati tramite Invitalia, ma la situazione rimane critica o in stallo, senza prospettive. Il settore automotive è attraversato da una profonda riconversione produttiva, non accompagnata da politiche industriali di rilancio ma da sostegni economici, stanziati dal governo, per favorire e guidare la domanda. Il settore del trasporto aereo e marittimo si è fermato durante tutta la pandemia, e oggi stenta nella ripresa; a questo si aggiunge una situazione di difficoltà e incertezza del sistema logistico e portuale del Paese. Stessa situazione si vive anche nel settore turistico, dove la situazione finanziaria di molte aziende è molto compromessa. Nei comparti della scuola, della sanità e dei servizi alla persona non ci sono crisi finanziarie come nell’industria; ma è evidente che, dopo la pandemia, questi settori hanno la necessità di ripensarsi e riorganizzarsi.
Con la guerra e la corsa del prezzo del gas si è parlato in particolare delle grandi difficoltà per le aziende energivore. Quali sono?
Il costo odierno dell’energia manda fuori mercato intere filiere produttive, chimica, siderurgia, ceramica, fonderie, industria cartaria, industrie meccaniche, industrie alimentari, vetrerie, settore gomma plastica, cemento, industria del legno, settore tessile, farmaceutica. Inoltre, sappiamo che l’efficienza energetica, già da tempo, ricopre un ruolo chiave in tutti i settori, sia in ambito industriale sia nel terziario.
Di recente anche Confindustria ha lanciato un allarme e si parla di un possibile “terremoto” produttivo in autunno. Che cosa sta per succedere?
Siamo in una situazione di tempesta perfetta, la fragilità del nostro tessuto industriale, già presente prima, si è trovata, senza averlo previsto, nell’arco di meno di tre anni, ad affrontare gli effetti della pandemia per poi essere catapultata in una economia di guerra. Tutto ciò ha comportato un aumento dei costi energetici e delle materie prime, grande difficoltà negli approvvigionamenti, dovuto alla mancanza di filiere in prossimità; l’inflazione e i costi in aumento generano una contrazione della domanda e una diminuzione della produzione. Confindustria ha lanciato l’allarme perché si è accorta, in estremo ritardo, che da solo il mercato non basta per fare fronte a questa tempesta, ma rimane ancorata alla logica degli aiuti “spot”, senza un intervento di politica industriale che indirizza e regola anche le imprese.
La Cgil lamenta, da anni, la mancanza di una politica industriale nazionale, mentre vari osservatori mettono l’accento sull’assenza di visione da parte dei politici italiani. Mancano cultura e prospettiva dell’impresa?
Il mondo si è ristretto e il nostro Paese si è trovato più esposto, a causa di scelte di politica industriale non fatte nel passato, anche recente. Nei più importanti Paesi industriali europei, in questi anni di difficoltà, i governi hanno fatto scelte precise per mettere in protezione i settori ritenuti strategici: non hanno erogato solo sostegni pubblici come abbiamo fatto noi, ma hanno anche indirizzato e guidato i vari processi accompagnandoli con infrastrutture e reti pubbliche, che hanno reso quel Paese competitivo; contemporaneamente, hanno imposto alle imprese impegni precisi e buona occupazione. Noi invece abbiamo perso eccellenze produttive, e non siamo intervenuti per salvaguardarle. Come Cgil da tempo chiediamo interventi pubblici su settori strategici, interventi a salvaguardia del nostro patrimonio industriale e scelte di rilancio di nuove produzioni e delle filiere produttive – per contrastare la desertificazione produttiva. Interventi che richiedono importanti capitali pubblici, ma anche condizionalità e verifiche costanti gestiti da un’unica Agenzia dello sviluppo, che mantenga una regia e un coordinamento pubblico, che indirizzi e intervenga in un quadro definito, che abbia uno sguardo lungo su quali produzioni e quali scelte vanno fatte per immaginare il Paese nel prossimo futuro.