Cinematic, Undiscovered, Cilento
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Il bar è morto. Prima, era un «grotto». Uno scantinato scuro. «Ingombro di botti, ma rinomato per il buon vino, assai apprezzato dai professori d’orchestra della Scala e dai macchinisti, robusti bevitori». Si può definire trani, alla milanese. Affluivano pure i «facchini in grembiule verde degli alberghi». Anno 1930: il «grotto» chiude. E in pochi mesi riapre: ora è il più rivoluzionario bar d’Italia, ispirazione Bauhaus, un «caffè-manifesto del razionalismo architettonico e dell’astrattismo pittorico». Prima che un caffè di artisti (pur se diventerà «covo delle avanguardie»), un’opera d’architettura e d’arte. Connette la Milano nera del fascismo al Cabaret Fledermaus di Vienna, al Cabaret Voltaire di Zurigo, al Café L’Aubette di Strasburgo. Piazzetta Filodrammatici, angolo vicolo Malagodi, a 50 metri dalla Scala. Una fontana di Fausto Melotti in fondo alla sala; un manichino di Marcello Nizzoli piantato al centro della vetrina grande su strada. «Una piccola stazione planetaria da cui partire per l’Europa illuminata, lontana per noi come un astro di Klee» (Alfonso Gatto). Impresa d’un ristoratore visionario. Antonio Craja, origine marchigiana, classe 1885. Si chiamava semplicemente così: Caffè Craja.
Chiude nel 1964. Viene distrutto. Ha scritto la figlia di Antonio, Enrica Craja: la sede di una banca «ne fece tabula rasa senza riguardo né consapevolezza di ciò che rappresentava». Se esistesse oggi, «sarebbe non solo attuale, ma ancora d’avanguardia». L’epitaffio è cullato nei versi di Gatto: «È morto anche il caffè, nel darne conto/ il cronista dirà: “qui, sui divani/ del Craja i sogni attesero il domani”». Ecco perché vale la pena di tornare in quel bar. Con un libro: Il tempo del Craja. Biografia di un caffè. Raccoglie un memoir di Enrica Craja (preservato dopo la sua morte, anno 2007) e aggiunge una messe di testimonianze di architetti, poeti, critici, pittori, scultori, designer, che in quel bar hanno passato un pezzo della loro esistenza. Proviamo a entrare nelle sale: una pianta a L, il bancone, poi salette come vagoni. La descrizione è della curatrice del volume, Anna Chiara Cimoli: «Le scelte cromatiche, coraggiose, declinano la stessa dialettica tesa fra il rigore modernista e la ricerca del Bauhaus, con una sperimentazione di accostamenti inediti e antigraziosi: gialli i tubi del riscaldamento; in pelle rossa il divano; bianche, verde anice e verde bosco le tessere mosaiche a pavimento. Quale altro architetto, in quegli anni, avrebbe osato tali accostamenti, portando inoltre a emersione l’elemento impoetico dei tubi del riscaldamento, che sembrano anticipare l’intuizione del Centre Pompidou?». Tenere presente il contesto: all’epoca i grandi caffè erano boiserie, panneggi, velluti, lampadari. Ecco, chi fu l’architetto che tanto osò? Luciano Baldessari, professionista che ha attraversato (senza farsi ingabbiare) le tendenze più innovative del primo Novecento. Amico di Antonio Craja, in quanto suo cliente. Baldessari chiama a progettare il caffè i giovanissimi Luigi Figini e Gino Pollini, astri dell’architettura razionalista.
E ora, non resta che frequentare il Craja, per mezzo di racconti e ricordi. Carlo Belli, il teorico dell’astrattismo: «Nella prima saletta imperversava Persico con i suoi “chiaristi”; nella seconda, noi astrattisti e razionalisti». Dalle memorie di Enrica Craja: «Devo ricordare Fortunato Depero… Fu sui tavolini del bar Craja che nacque la rivista “Il Caffè” nel tempo del secondo futurismo». L’architetto Alberto Sartoris: « Al Craja m’intrattenni sovente con il coraggioso gruppo di “Campo Grafico”: l’indimenticabile Raffaello Giolli, il saggista Leonardo Sinisgalli, il critico d’arte Gian Carlo Vigorelli, il pittore-tipografo-impaginatore Attilio Rossi. Durante l’epoca d’oro degli anni Trenta-Quaranta, condussi al Craja Gino Severini, il precursore russo Wassili Kandinsky, il grande Le Corbusier». L’architetto Ludovico Belgiojoso: «I miei amici Banfi, Peressutti, Rogers ed io eravamo studenti ventenni. Il bar Craja e la Galleria del Milione in via Brera erano in quel momento i luoghi dove si ritrovavano gli amici architetti, pittori, scultori e critici». Il Milione viene fondata a Milano nel novembre 1930. Obiettivo: recuperare il ritardo rispetto alle avanguardie europee. Nomi del primo decennio: il co-fondatore Gino Ghiringhelli, Oreste Bogliardi, Lucio Fontana, Osvaldo Licini, Bruno Munari, Mario Radice, Mario Soldati. Di sera, quelli del Milione si ritrovano al Craja. Forse perché, spiega Munari, è «il luogo più esatto e più pulito dove incontrare gli amici». Lo sarà fino al 1964.
Scrive Gatto, quando il caffè è ormai scomparso: «Noi del “Craja”, quelli che sono morti e quelli che vivono ancora, fummo uomini di uno strano destino… Non c’è stata generazione più bella della nostra: e quel “Craja” faceva Milano, inclemenza, merito… La miseria, che fu allora un onore proibito, oggi non esiste più: oggi la ricchezza è fatale, l’Europa non è più una speranza, ma una scommessa. Il futurismo è un’avanguardia. Noi non abbiamo capito nulla».
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